LA FUNZIONE DEL LIMITE
Articolo di Francesco Leonardi
«Ogni relazione reale nel mondo poggia sull’individuazione; questa è la sua delizia, perché solo così è garantito il riconoscersi reciproco dei diversi; e questo è il suo limite, perché a causa sua falliscono il pieno conoscere e il pieno essere conosciuti. Ma nella relazione perfetta il mio tu comprende il mio io, senza esserlo, il mio limitato conoscere si schiude in un illimitato essere conosciuto» (1).
Ho pensato che queste parole di Martin Buber potessero essere più che adatte a cominciare una riflessione che potesse giungere a sfiorare, per così dire, il mistero della Trinità divina. Molto è stato detto dalla Teologia in merito alla natura relazionale dell’unità/molteplicità di Dio. Qui, dunque, ci soffermeremo in modo semplice sulla categoria di “individuazione” dalla quale, come detto, nasce la concretezza dei rapporti umani. Spesso pensiamo alla Trinità come principio astratto entro il quale il mondo si finalizza, eppure non facciamo caso che la semplicità di questo scambio è individuata nei ritmi di un cosmo che geme aspettando la redenzione (2).
Dio, dunque, abita il “secolo” e “finisce” in esso. Bisognerebbe ripensare, in tal senso, che l’idea astratta di un Dio dei princìpi non attecchisce se non si rapporta al limite dei viventi. Il ri-conoscere la diversità altrui, in qualsiasi relazione, parte dalla consapevolezza e soprattutto dall’accettazione di questo limite. Esso mi permette di ritrovare il centro dell’esserci come punto chiaramente individuato. Se il superamento deve attuarsi (ed è possibile che ciò avvenga), non si può pensare di scansare la barriera che radicalizza la finitudine.
Nella Sacra Scrittura diversi sono gli esempi dell’invito, da parte di Dio, a prendere consapevolezza dei particolari desideri che abitano l’animo dell’uomo. I miracoli di guarigione che Gesù compie riguardano situazioni particolari, entro le quali l’esperienza del limite è talmente forte da diventare costrizione. La cura che Gesù offre è indirizzata alla presa di consapevolezza di un desiderio che con la fede non viene solamente soddisfatto, ma rimodulato nella sua conformazione più autentica.
Nell’incarnazione del Verbo il λόγος si specifica, viene narrato in circostanze particolari, rivolto all’irriducibilità di persone precise. Ecco perché la Trinità non può essere pensata superficialmente nell’universalità di un principio causale o finale. Nella formula Teopaschita degli inizi del VI secolo d.C. si recita “unus de Trinitate passus est”: essa persegue la grande intuizione che la passione, vale a dire il movimento verso il basso, verso il limite assoluto che in ultima analisi è la morte, è correlato all’essenza ultima di Dio. Non dimentichiamo, tuttavia, che proprio perché esiste un limite che permette l’avvicinamento, dev’essere presupposta anche la distanza. Se così non fosse si cadrebbe nella “falsa finitudine” propria di certi pensatori che sono caduti nell’immanentismo cieco. San Giovanni della Croce, proprio all’inizio del Cantico Spirituale, così recita:
«Dove ti nascondesti,/ Amato, e mi lasciasti gemente?/ Come il cervo fuggisti,/ dopo avermi ferito;/ uscii dietro di te gridando, e te ne eri andato» (3).
Da qui si capisce che la distanza che Dio crea tra sé e la creatura che lo cerca è necessaria affinché l’incontro che permette lo scambio, il dialogo tra le due realtà, rispetti l’identità di entrambi e generi il desiderio stesso della relazione. L’individuazione, dunque, è indice della presenza di Dio nel mondo creato, indice anche della sua distanza ed energia di attrazione che permette all’Amore di realizzarsi: quando tutto è dato non si ha bisogno di amare. A quanto pare Dio è bisogno d’Amore dato e ricevuto ed è percepibile solo con il cuore. Se la Trinità fosse riconducibile ad un freddo schema deduttivo, allora Dio non potrebbe essere accessibile a tutti e l’universalismo della salvezza non ci potrebbe essere; saremmo un po’ come gli gnostici contro i quali i Padri si scagliavano.
Il Dio in cui crediamo, invece, risolve il semplice e il complesso nella dialettica di unità e molteplicità, possibile solo a partire dall’esperienza di individuazione. Da qui l’uomo della strada e l’accademico hanno la stessa possibilità esperienziale del divino. Troppo democratico? Forse. Qui, tuttavia, ci riferiamo a qualcosa di più, anche della democrazia che pure ha i suoi limiti. Non ci resta che assumere la consapevolezza che le comunità cristiane che si riuniscono nel Nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo devono “respirare” vita concreta e responsabilità personale nelle scelte
che compiono.
1 M. Buber, Io e tu, Cinisello Balsamo, 2014, p. 131.
2 Cfr. Rm 8, 19-23
3 San Giovanni della Croce, Cantico Spirituale, Milano, 2018, p. 51.