Ecco la serva del Signore
articolo di Francesco Leonardi, teologo
Se il prendersi cura stimola il nostro animo a vivere l’esperienza del limite in modo significativo, il senso della finitudine non può dirsi abbattuto, anzi spesso si rivela come fonte di agitazione,
mancanza di serenità di fronte alle sfide incerte che il vivere comporta. Basta guardare le pubblicità dei farmaci anti-stress o andare nei supermercati per constatare l’incremento della vendita di infusi rilassanti. È aumentato significativamente il lavoro degli psicoterapeuti, non solo a causa della pandemia, ma soprattutto per il senso diffuso di fragilità personale e relazionale. Il CoVid 19 ha messo in luce delle carenze già presenti nel tessuto sociale, per non parlare di quello politico. Come potevamo sperare di vivere sani in un mondo malato? Domandiamo chiaramente col “senno di poi”, ma forse ci si accorge di esser stati ciechi solo quando si comincia ad intravedere qualcosa. Per i credenti che vivono il tempo presente la sfida è ancor più importante: dov’è Dio quando l’insicurezza ci entra dentro e l’ansia fa diventare gelide le nostre mani e fitto il nostro petto? Non abbiamo una risposta precisa e non l’avremo fin quando Lui stesso deciderà di mostrare il suo volto. Sì, solo guardandolo negli occhi abbiamo la possibilità di distrarci dalle nostre sabbie mobili, per rimanere fermi dinanzi alla sublimità del suo sguardo e non affondare. Intanto l’obiezione nasce spontanea: quando avverrà tutto ciò? In questi casi si dice che bisogna aspettare i tempi di Dio che vede più lontano, forse è vero; ma abbiamo mai pensato che la domanda posta già indica una direzione da seguire, ci mette in condizione di ricerca per cui la libertà non consiste primariamente nella meta o nell’itinerario, ma nella concretizzazione di entrambi? Nel Sofista Platone affermava: «il nostro discorso, infatti, viene in essere grazie all’intreccio reciproco delle idee»1(). Su questa scia possiamo dire che l’adesione al reale, con la sua profondità, non è mai conclusa. Risulta chiaro, a questo punto, che per i credenti questa realtà di cui si parla è Dio stesso, il quale non può essere pensato al di fuori di essa, ma nella dialettica di distanza e presenza risolta nell’Amore. Solo l’Amore è credibile, nel senso che il tremore del salto nel buio della fede e l’incertezza per il domani non vengono eliminati, ma diventano possibilità insperate prima: «La fede non è perciò commozione estetica, ma qualcosa di più alto, […], non è l’impulso immediato del cuore ma il paradosso dell’esistenza»(2).
Paradosso che dischiude l’ingranaggio fondante la vita, pur rimanendo diverso dalle nostre aspettative. Chi si aspettava che Dio potesse incarnarsi nella piccolezza di una ragazza, come nel Mistero che nell’Annunciazione si celebra? Con la sua semplicità, ma anche col travaglio interiore testimoniatoci dalle parole «Come avverrà questo?»(3), Maria, la Madonna, intravede il paradosso che rappresenta una simile manifestazione, ma obbedisce a partire dal fatto che «nulla è impossibile a Dio»(4). Non perché Dio sia lo stregone di turno che compie miracoli estaticamente (magie), che dona certezze con schiocchi di dita, ma perché la sua signoria (βασιλεία) permea ogni aspetto del cosmo. Da qui Maria vede quel volto di cui abbiamo detto sopra. Secondo Sant’Agostino lei concepisce il Figlio di Dio prima nel cuore che nel ventre(5) e, in effetti, ciò che le permetterà di scorgere la verità dello sguardo di quel suo figlio «segno di contraddizione»(6) (paradosso) sarà l’aver ritrovato in lui una certa corrispondenza, la stessa luce, con lo sguardo divino dal quale era stata catturata. «Ecco la serva del Signore»(7) è la presentazione di una donna disposta a fidarsi, non di una voce, non di sé stessa, ma di Dio. Perché il suo essere nel mondo è signoria, ma anche accessibilità al finito. Il che vuol dire che l’idea di Dio è alienazione solo quando lo si classifica come entità astratta, perfetta per quanto la si possa immaginare. Il Dio di Gesù Cristo, invece, a volte delude e si presenta debole. Come abbiamo ricordato nel corso di queste riflessioni la sconfitta spesso è definitiva, quindi l’ansia di perdere tutto altrettanto forte, l’insicurezza a portata di mano. La dialettica che può tirarci fuori non è concetto categorizzato, ma vicinanza di relazione che contempla la bellezza concreta e ad essa ci attrae, certi che forse precipiteremo, ma il nostro piede non inciamperà(8).
1 PLATONE, Sofista. Testo greco a fronte, Torino, 2008, p. 213.
2 S. KIERKEGAARD, Timore e tremore. Lirica dialettica di Johannes De Silentio, Milano, 2017, p. 95.
3 Lc 1, 34
4 Lc 1, 37
5 Vd. AGOSTINO D’IPPONA, Sermone 215, 4.
6 Lc 2, 33
7 Lc 1, 38