L’esperienza del falegname San Giuseppe, tra i grandi sognatori della storia salvifica
Articolo di Francesco Leonardi, teologo
La parola “sogno” ci riporta, per derivazione, a quella di “sonno”. Con quest’ultima, solitamente, indichiamo lo stato alterato di coscienza o di non coscienza che attraversiamo durante il riposo. In questa condizione, per dirla con Freud, la mente elabora ciò che si è vissuto e lo ricorda mediante rappresentazione onirica (cfr. L’interpretazione dei sogni, Cap. 1 par. B). Dipendentemente dal tipo di sogno di cui ci si ricorda al mattino, si vive un rapporto più o meno riconciliato con esso, gli si attribuisce questo o quel valore e, a proposito dell’attribuzione di valore, si compiono spesso delle speculazioni indebite.
Si dice del sogno anche in contesti diversi da quello del sonno, per esempio si paragona alla visione estatica di una particolare realtà o si vive come scappatoia alla pesantezza, e così via.
La prospettiva, a mio parere invece, sarebbe quella di attribuire alla dimensione dei sogni il posto di una reale concatenazione con la luce della coscienza, con la vita concreta appunto. Questa, proprio perché luce, permette di illuminare le cose con le quali entriamo in contatto, distinguendole, di modo che possiamo accoglierle.
La distinzione che la luce cosciente permette di fare, secondo alcuni, in modo più o meno velato, rappresenterebbe una sorta di riduzione di portata rispetto alla contemplazione vera e propria dell’incommensurabilità del fondamento delle cose, la ridurrebbe necessariamente al punto di vista che abbiamo su esse.
Una simile posizione potrebbe essere percorribile solo a livello teoretico, perché incrociare con lo sguardo la mobilità delle cose offre l’impressione di innalzare lo spirito, ma non libera la realtà quotidiana. Non si prenderebbero sul serio questioni come il dolore, la sofferenza, gli sforzi per arrivare a fine mese, e così via. Se tutto fosse fondazione eccedente e inqualificabile, allora si dimenticherebbe per strada la vita, non si riuscirebbe neanche a formulare la domanda di partenza.
Il sogno, dunque, è molto più che un semplice sguardo ad uno stato di cose fuggevoli e sfumate; esso diventa lo stato di aggancio tra la contemplazione e la realtà quotidiana. Ecco perché si può parlare di sogno non solo a partire dal sonno, ma anche come sguardo di lunga durata che genera tensione, quindi azione concreta verso un’aspettativa. Esso è sì, contemplazione che permette di abitare il tempo al centro del suo fondamento, ma anche forza catalizzatrice della reazione precisamente delineata della coscienza.
Lo stesso mistero dell’incarnazione del Verbo, nella nostra tradizione cristiana, riprende questo movimento che oscilla tra la contemplazione e l’azione puntuale nel mondo che abitiamo. San Giuseppe, individuato dalla Scrittura tra i grandi sognatori della storia salvifica, è un esempio tipico. Il Vangelo secondo Matteo narra: «Mentre però stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: Giuseppe, figlio di Davide, non temere…» (Mt 1, 20).
Il falegname di Nazaret, nella semplicità del giusto, pensa e soffre su una situazione che “alla luce del giorno” è incomprensibile; sogna e, senza proferir parola, obbedisce alla voce divina che gli ha parlato: «Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore» (Mt 1, 24). C’è dunque un entrare e uscire dal sogno, che traduce l’incontro col fondamento in azione concreta e in assunzione di responsabilità rispetto al proprio compito. Per questo il sogno di Giuseppe è sì, l’ombra di cose vissute, ma anche l’incontro che questo vissuto instaura con la propria verità profonda. Giuseppe non dubita di aver preso un abbaglio perché conosce in sogno il fondamento della libertà, che è possibilità di stare o meno con Maria, e allo stesso tempo necessità di un progetto.
Dal Vangelo (18 dicembre) Gesù nascerà da Maria, sposa di Giuseppe, figlio di Davide