Riflessioni di don Vittorio Rocca,
docente dello Studio Teologico di Catania e decano della Basilica San Sebastiano in Acireale
26. VITA – 24 dicembre – FINE
Siamo arrivati al termine di quest’alfabeto della speranza con la parola “vita”.
Alcuni giorni fa ho rivisto con piacere il film “La vita è meravigliosa” (It’s a Wonderful Life, 1946) di Frank Capra. Il film con James Stewart ci mostra la fragilità di un uomo quando il lavoro deraglia e subentra lo sconforto sul futuro. L’incontro provvidenziale con uno sconosciuto, un angelo, farà riaffiorare il senso della vita e l’importanza della propria famiglia. Un “classico” film natalizio. Poetico.
L’ombra di questo tormentato 2020 si proietta anche sul Natale. Stiamo vivendo un Natale non proprio gioioso, che non ci saremmo mai augurati. Ma per tante persone nel mondo questa del Natale difficile non è una novità, purtroppo. Anzi, dovremmo ricordarci che il Natale più difficile di tutti i tempi è stato proprio il primo. Storicamente la nascita di Gesù è segnata dalla precarietà, dalla povertà. Ma proprio in questa precarietà sta la bellezza della vita. Penso che Betlemme anno Zero sia come un modello, per cui nulla dovrebbe più spaventarci. In concreto, però, non è così. Veniamo da una lunga condizione di privilegiati. Ci siamo convinti che esistesse solo il Natale del nostro Occidente ricco e opulento. Per accorgerci dell’errore sarebbe stato sufficiente guardare alla terra in cui Gesù è nato, il Medioriente. Ma anche altrove il Natale è da sempre il momento in cui emergono fragilità profonde, che sono le fragilità dell’esistenza, né più né meno.
Come vivere allora oggi la speranza? Cosa ci ha insegnato il cammino dell’Avvento? Provo a dare tre riferimenti finali. Primo: la vita ha senso. Secondo, il senso della vita è andare verso la nascita di noi stessi, verso la nascita dell’uomo nuovo. Terzo, questa nascita inizia ora e durerà per sempre. Ecco, questi sono i capisaldi della speranza, che “viene sempre a noi vestita di stracci, perché le confezioniamo un abito da festa” (P. Ricoeur).
E poi abbiamo compreso che la speranza non è un’illusione, non è una favola perché c’è la realtà, c’è Gesù. Lui è il sogno realizzato, il futuro già presente. Il Vangelo ci fa comprendere che è possibile vivere meglio per tutti e Gesù ne possiede la chiave. L’incantesimo del Natale ci mostra la sua umanità, che è il volto alto e puro dell’uomo, la sua capacità di abbracciare l’infinito e abbracciare anche il più piccolo bambino.
Natale è il racconto della tenerezza di Dio. Gesù è il bacio di Dio germogliato sulla terra. Natale è il profumo di Dio nella vita. A cosa serve il profumo, nella vita? Serve a dire che c’è un amore accanto a te, a sentire la gioia che non sei solo. Il profumo è l’ultima cosa che rimane di una persona quando se n’è andata. Vi confesso che quando entro nella stanza di mia mamma sento ancora un po’ del suo profumo.
La nascita del Dio Bambino rende possibile la costante e reale rinascita di ciascuno di noi, quando ci lasciamo raggiungere da Lui, in ogni istante della giornata: mentre leggiamo, svolgiamo un lavoro, facciamo benzina, mangiamo una pizza o beviamo un bicchiere di vino, stiriamo una camicia, diamo un bacio. Natale è Natale se e raggiunge la vita. Natale è danzare la vita con Dio. Siamo nati per danzare la vita!
Che Natale dia senso al nostro cammino: “In cammino come i magi, per un’altra strada torniamo a casa; in cammino come i pastori, liberi dalle false sicurezze del recinto; in cammino come Giuseppe, con gli occhi vigili della sentinella seguendo umilmente la vita; in cammino come Maria, consapevoli di avere la vita vera dentro la nostra vita, pazienti e resistenti affinché la vita profumi di futuro; in cammino con Gesù, così vicini alla vita da credere alla possibilità di cambiamento dell’uomo. Camminiamo insieme con la torcia lucente, una finestra aperta sulla notte, perché l’ardente amore possa entrare” (don Luigi Verdi).
Si, ne sono sicuro: It’s a Wonderful Life!
Buon Natale!
25. UMILTA’ – 23 dicembre
Oggi vi racconto una storia, una storia raccontata da uno dei personaggi presenti quella notte di 2020 anni fa a Betlemme…
Un giorno mi portarono a Betlemme partendo dalla zona in cui stavo. Non ero da solo lungo il cammino. Ero in compagnia di una coppia di giovani. Durante il viaggio parlavano di compiere la volontà di Dio, erano lì per una nascita “speciale”. Giunti a Betlemme, dopo giorni di cammino, mi inoltrarono per vie e viuzze e sbirciavo dentro le case per scorgervi lo scorrere della vita quotidiana. Si fermavano a chiedere ospitalità ma non c’era posto per loro. Giunti nei pressi di una grotta, entrammo dentro.
Lui, l’uomo, teneva stretta a sé la donna, che era affaticata per il viaggio e perché aspettava da un momento all’altro la nascita del suo “cucciolo”. Giuseppe – così si chiamava – prese un secchio d’acqua, lo riscaldò e lo pose dove vi era la mangiatoia.
E poi…ho visto Maria generare il figlio. Lo sistemò in fasce, lo allattò e gli pulì anche il sederino! Non credevo ai miei occhi, eppure era proprio così. In quel momento ho pensato: solo un Dio umile poteva abbassarsi a tanto! Umile a tal punto da venir trattato come tutti i bambini di questo mondo. È proprio vero: la grandiosità dell’amore di Dio si coniuga nel tempo della debolezza.
Pensai che il Natale è il bacio di Dio…
Preso da tali pensieri mi misi in ascolto di quel che accadeva nella grotta…
Maria mi disse: l’umiltà è l’aspetto più radicale di Dio-amore, umile a tal punto da farsi bambino ed essere trattato come tutti i bambini che vengono alla luce. Ha pianto anche Lui nascendo… Anche lui ha lanciato sotto a un cielo di stelle quel primo vagito, uguale a quello di ogni bambino. Freddo, fame, e il fiotto d’aria che colma i polmoni, e che si esprime in un grido.
Tra me e me pensai: abbiamo a che fare con un Dio povero. Per questo nel Natale Dio mette a rischio se stesso divenendo vulnerabile. Dalla mangiatoia alla croce.
Poco dopo Giuseppe mi disse: Dio ha fatto una promessa a se stesso: essere amore per sempre. Questa è la promessa di Dio all’uomo. Con questa certezza nel cuore ho accolto Maria e il bambino che attendeva: ho voluto mantenere la mia promessa sicuro che Dio non viene meno alle promesse che fa.
Tra me e me pensai: come cambierebbe la mia vita e come cambierebbe il mondo se vivessimo ogni attimo con la certezza che Dio mantiene le sue promesse. Gesù è la promessa di Dio Padre. Celebrare il Natale significa festeggiare il fatto che Dio ha mantenuto la sua promessa. Abbiamo a che fare con un Dio fedele, un Dio che a tutti i costi mantiene le sue promesse. D’altra parte l’amore vero non è forse una questione di promesse? …Non è forse uno scambio di fedeltà? Vuoi festeggiare il tuo Natale? Non tradire le persone che ti sono care, non tradire te stesso, non tradire Dio. Dio pur di non tradire ha accettato di essere tradito.
Poi arrivarono i pastori e mi dissero: abbiamo sognato a lungo, abbiamo sperato, abbiamo atteso coltivando la speranza che si avveri la promessa di Dio. E non siamo stati delusi.
Anche questa volta tra me e me pensai: forse dobbiamo ricominciare a credere ai sogni. Come Giuseppe, come Maria, come questi pastori. Senza speranza non può esservi Natale e il Natale stesso è motivo di speranza. Chi vive senza sogni vive le doglie della vita ma partorisce solo vento. Nella speranza la sofferenza vera, che sia scelta o subita, se accettata genera vita.
Anche la grotta volle parlare… e mi disse: non ho altro da offrire se non la mia povertà, la mia nudità, la mia precarietà, il mio niente… D’altra parte se fossi stata piena di oggetti, di ricchezze…non vi sarebbe stato spazio per Gesù e anch’io avrei dovuto dire “non vi è più posto”.
Tra me e me pensai: il tutto può essere accolto solo dal nulla… La grotta oggi sono io, ma… sono abitato da cosa, da chi? Se non faccio spazio non posso essere abitato da Dio.
A questo punto… non mi resta che presentarmi: io sono l’asino. L’asino con cui Gesù viene al mondo. E sarò sempre io a portare Gesù a Gerusalemme in quella domenica delle palme…Sono un asino, si: ma porto il mio Signore!
Vuoi accogliermi? Con me si passa dalla violenza alla pace. Di questo il nostro mondo ha tanto bisogno.
Vieni Dio umile! Vieni Signore Gesù!
24. SPERANZA – 22 dicembre
Ho letto da qualche parte che il verbo ebraico che equivale a “sperare” potrebbe richiamare la parola “corda”. È un’immagine che mi è piaciuta subito: la corda evoca la tensione, l’attesa, la speranza appunto. Il nostro “alfabeto della speranza” in tempo di Avvento si sofferma oggi proprio sulla speranza.
La speranza è la virtù che ci fa tendere verso Dio, l’infinito, la gioia. È una corda a cui aggrapparsi e che ci solleva verso l’alto.
Il Natale è questa corda che ci viene donata e a cui dobbiamo attaccarci, tenerci stretti, lasciarci tirare e favorire la salita.
Vivere senza speranza, disperati, ci fa diventare, direbbe Shakeaspare, “walking shadow”, “ombra che passeggia”. Tutto appare come un incubo, si cade nell’abulia e nel grigiore, come se si fosse già morti…
Ci si può, però, aggrappare alla speranza e tirare l’anima coi denti, risalendo la china e ritrovare un po’ il gusto di vivere, un po’ di entusiasmo nell’agire, un po’ di fiducia in se stessi e nel mondo.
Bisognerebbe poi avere il coraggio di seminare speranza, anche quando dentro si è desolati. Anche se nel cuore c’è la tempesta, dovremmo cercare di consegnare agli altri parole di pace. Anche quando non si sa cosa dire, cosa fare, a volte neanche cosa pensare, cercare di prestare la voce, lo sguardo, le mani a Dio. “La speranza è un volto che sorride tra le lacrime” (Ernesto Olivero).
Dovremmo essere, gli uni per gli altri, questa fune, questa corda da afferrare. Chi si attacca a questa corda e inizia a camminare scopre il sapore della speranza, della nuova vita.
Il Natale ci faccia ritrovare il coraggio di sperare che ci sia Qualcuno alla porta del nostro cuore, che ci sia Cristo che “sta alla porta e bussa” (Apocalisse 3,20).
C’è sempre un filo di speranza e di salvezza. Anche quando la strada è oscura e l’orizzonte sembra perdersi nelle tenebre, sapere che noi siamo amati dalla Luce e dall’Amore, questo dà speranza!
Vieni Cristo nostra Speranza! Vieni Signore Gesù!
23. SILENZIO – 21 dicembre
I giorni delle ferie natalizie quest’anno saranno sicuramente più silenziosi. E non mi dispiace. Approfittiamone per un tempo di quiete, di gioia serena che sboccia dall’ascolto, dalla meditazione, dal silenzio.
Già Seneca ci ricordava che “le altre forme di allegria non riempiono il cuore, sono esteriori e vane. Credimi, la gioia è austera”. Un altro grande dell’antichità, il filosofo greco Eraclito, in uno dei suoi “Frammenti” raffigura l’anima come una terra sterminata, come un oceano sconfinato che si percorre senza mai ritornare alle stesse acque (“Non potrai bagnarti due volte nelle acque dello stesso fiume”). Lui parla di “Logos”, il nodo d’oro che tiene insieme tutto il mistero dell’anima.
Allora perché non navighiamo – nel silenzio – nel mare dell’anima alla ricerca di quel “Logos” che per noi ha un nome e un volto, del quale stiamo per festeggiare la sua natività?
Spesso invece la nostra nave è sballottata qua e là senza giungere mai all’approdo sicuro. Corriamo senza una meta. Scrutiamo l’orizzonte senza una stella polare.
Proviamo, in questi giorni, a stare davanti a Dio in silenzio, magari dicendogli soltanto: “Sono qui…pensaci tu, Signore”. Stare in silenzio, in abbandono fiducioso senza moltiplicare le parole, in un dialogo di intimità.
Stare davanti al Presepio e guardare. Come un bambino, guardare e credere… Il silenzioso sguardo d’amore vale più di mille doni.
Vorrei suggerirvi, permettetemelo cari amici, vorrei suggerirvi, non certo per sollecitare sentimentalismi, di sostare nel silenzio notturno il 24 allo scoccare della mezzanotte. Un silenzio illuminato dal chiarore della luce di Betlemme da trovare nella profondità dell’anima. Un silenzio che non pretende di soffocare il buio ma lo invita a diventare luce, seppure tenue. Un silenzio benedetto e prezioso con la propria anima, con le miserie e grandezze che forse ignoriamo di custodire nel cuore. Lasciarsi cercare, raggiungere, interpellare da Lui. È nel silenzio del cuore che Dio parla. “Dio è amico del silenzio” (Madre Teresa).
Vieni Signore Gesù, vieni nel silenzio, Tu ci sei necessario!
22. SI’ – 20 dicembre
Oggi è la IV domenica di Avvento. Il Vangelo ci presenta il “sì” di Maria all’annuncio dell’Angelo. Ieri abbiamo parlato della paura. Maria è la persona che dice sì. Non così Adamo che, quando Dio andò a cercarlo – “dove sei?” – rispose “mi sono nascosto, perché ho avuto paura” mentre Maria dice “eccomi”.
Maria era una giovane. Come ogni giovane piena di sogni. Quel giorno si sentì “pensata”. In quel giorno di luce sulla pelle sentì un brivido inatteso, il brivido di sentirsi pensata da Dio.
Il sogno di Dio incrociava i suoi sogni di giovane, ma, insieme, li scompigliava. Perché Dio non è mai nei sogni statici. I sogni vanno, prendono strade, corrono oltre. Anche tu sei pensato, pensata da Dio. E i tuoi sogni si fondono con i suoi su di te. E non vanno nel segno della tristezza, ma del rallegrarsi.
Se viene Dio, se ha un annuncio per te, se entra nella tua vita, nella mia vita, nella nostra, non è per intristirci o intimorirci, ma per rallegrare il nostro cuore.
Maria disse: “Ecco, sono la serva del Signore. Avvenga di me secondo la tua parola”. Lei usa una parola che a noi non piace: “schiava”. Lo schiavo è colui che appartiene all’altro e l’amore è essere dell’altro. Il massimo di libertà è essere dell’altro per amore. Maria dice “sono tua” come Tu sei mio, ho capito che Tu sei mio e anch’io sono tua, ed è il “sì” perfetto.
“Eccomi, sì”. Quando lo diciamo, ogni volta che lo pronunciamo, fiorisce il sogno di Dio, che non si realizza senza il nostro apporto. Che conosce anche fatiche.
Dio va in cerca della persona che ama. E Maria dice a Dio “eccomi, ci sono”. È il prototipo di chi entra in dialogo con Dio. Giustamente Dante dice che Maria è “termine fisso d’eterno consiglio”.
Dio è da sempre “sì” e “amore” per tutta la sua creazione e aspetta che qualcuno liberamente gli dica “sì”, solo allora il suo desiderio è compiuto; la stessa creazione è compiuta, perché nel “si” a Dio la creazione diventa come Dio: l’amore rende simili, rende uguali.
Il sogno di Dio avrebbe incrociato anche i sogni di Giuseppe. E Dio solo vedeva come tutto sarebbe stato possibile. A noi, come a Maria e Giuseppe, è chiesto di dire e continuare a dire il nostro “sì”!
Si, vieni Figlio dell’Altissimo! Vieni Signore Gesù!
21. PAURA – 19 dicembre
La paura di morire e quella di vivere. La paura di ciò che è precario e insicuro. La paura della nostra fragilità, e di quella degli altri. Oggi il nostro alfabeto tocca uno dei tasti di quell’affanno che ci fa troppo spesso restare immobili, mentre la vita scorre. Perché vogliamo avere controllo su tutto? Perché non accettiamo la nostra provvisorietà?
Proviamo ad aprire piccoli squarci di luce nel buio delle nostre ansie.
Questo è certamente un momento di “prova”, in cui siamo tutti chiamati a una risposta eticamente qualificata. Papa Francesco ricorda spesso un principio, secondo cui “il tempo è superiore allo spazio”. Questo principio è di grande saggezza, poiché non assolutizza il presente, ma lo pone in relazione al passato e, soprattutto, al futuro. La fede ci aiuta ad abbracciare la fragilità, a non temere la fragilità, ma ci aiuta anche ad immaginare il futuro, a sentire di nuovo quella parola che Dio disse ad Abramo: “Alza gli occhi da terra e conta le stelle”. Questo è anche il momento di guardare le stelle. O come diceva la nostra amica Etty Hillesum, nel diario che scrisse nel lager di Westerbork, questo è il momento “di guardare i gigli del campo”.
Mi aiuta tanto anche la teologia di Bonhoeffer: Dio non salva dalla sofferenza ma nella sofferenza, non protegge dal dolore ma nel dolore, non salva dalla croce, ma nella croce. Dio non porta la soluzione dei nostri problemi, porta se stesso e dandoci se stesso ci dà tutto.
“Gesù – osserva padre Ermes Ronchi – ci insegna che c’è un solo modo per vincere la paura: è la fede!”. Questa prova della pandemia ci insegna che dobbiamo educare a non avere paura, a non far paura e a liberare dalla paura. Ancora oggi c’è chi farnetica di castighi e trasmette una fede impastata di paura. La paura produce un cristianesimo triste, un Dio senza gioia. Se non liberiamo dalla paura di Dio si avrà anche la paura dell’altro, la paura dello straniero. Bisogna passare dall’ostilità, che può essere anche istintiva, all’ospitalità. Liberiamoci, per favore, della paura di Dio, e liberiamo chi ci sta accanto da questa paura: diventiamo angeli che liberano dalla paura.
Gesù ha una proposta chiara per aiutarci a vincere la paura: “abbiate fede, nel Padre e anche in me”. Il contrario della paura non è il coraggio, è la fede in Dio che è amore, e non ti abbandona; la fede in Gesù che è la via, la verità, la vita.
Per 365 volte la Bibbia ripete: “Non temere!”. Il Signore ce lo ricorda tutti i giorni, per tutti gli anni della nostra vita.
Vieni Dio nella mia paura! Vieni Signore Gesù!
20. INNAMORATI – 18 dicembre
“Innamoràti di tutto il mondo, cantate, suonate, cantate. Suonate e ancora cantate che la pace su questa terra è la gloria di Dio. Luce che nasce ogni giorno, Verità che libera il cosmo, Amore che sconfigge la morte” (don Valentino Salvoldi).
“Gloria a Dio e pace in terra”: questo il messaggio del Natale.
Le guerre, tutte, sono proprio inutili. Vite spezzate, storie smarrite, per sempre. Eppure, l’uomo continua a fare guerre, come se la storia non avesse nulla da dire e da insegnare. La guerra, l’odio, nasce dal cuore dell’uomo.
La mia “amica” Etty scrive così nel suo “Diario” (siamo nel 1942): “Tutte le catastrofi vengono da noi stessi. Perché c’è la guerra? Forse perché ogni tanto ho l’inclinazione a trattare in malo modo il prossimo. Perché io e il mio vicino e noi tutti non abbiamo abbastanza amore nel profondo, eppure possiamo sconfiggere la guerra e persino tutte le sue escrescenze interiori, ogni giorno, ogni istante, sprigionando l’amore che abbiamo dentro, in modo da concederci una chance di vivere”.
La pace è come una casa la cui costruzione dipende da ciascuno di noi, dalle nostre scelte quotidiane che poi diventano scelte sociali e politiche di cambiamento. Ho in mente l’esempio di Ernesto Olivero e del SERMIG, che a Torino hanno trasformato una fabbrica di armi nell’Arsenale della Pace. Hanno creato una casa di pace, cambiando il dolore in gioia, portando la speranza alla portata di tutti, costruendo con la preghiera e l’impegno fattivo. Si, è possibile trasformare il male in bene, l’odio in perdono, la vendetta in riconciliazione. È possibile che la mia casa diventi casa di pace!
Vieni Re della Pace! Vieni Signore Gesù!
19. NASCITA – 17 dicembre
L’immagine che vedete è quella di un albero che si trova in Galles. È stato semidistrutto durante una tempesta; invece di abbatterlo, un artista ha immortalato per sempre l’ultimo tentativo di “salire fino al cielo”, di nascere al cielo.
A proposito di natura, Ho intrapreso la lettura di “Il tuo sguardo illumina il mondo”, recente libro di Susanna Tamaro. È il racconto dell’amicizia tra la scrittrice e Pierluigi Cappello. La bellezza di una sintonia tra due cuori, due anime, due creatività. E due modi diversi, ma affini, di affrontare la propria marginalità rispetto alla società, al mondo reale.
La stessa Tamaro scrive: “Forse la storia delle nostre due vite, così lontane, ma anche così straordinariamente vicine, si potrebbe riassumere in questo. Siamo querce che si sono fatte salici. Allo scontro, abbiamo preferito l’ascolto. Al soccombere, la linfa vitale che porta sempre a rinascere”.
Pensare di essere querce. Salde, forti, indistruttibili. E scoprire, invece, di essere dei salici. Alberi che, assieme ai fiori di crisantemo, sono i meno capiti e apprezzati. Allo scontro, all’imporsi con la forza, preferire lo stare al mondo con sensibilità e delicatezza. Per non rinunciare mai a far scorrere dentro di sé la linfa vitale, che porta sempre a rinascere, a trasformarsi.
Ancora Susanna Tamaro: “Che grande mistero si cela nella nascita! Come nessuno chiede di venire al mondo, così nessuno sceglie il modo in cui questo avverrà. Eppure tutta la nostra vita dipende da ciò che abbiamo in mano quando nasciamo, da quello che la Storia ha caricato sulle nostre spalle”.
Nascita, natura, Natale... sono parole che hanno la stessa radice. Basterebbe questo a vedere la straordinaria attualità dell’evento che chiamiamo Natale. La natura, ovvero quel che è “nato”, attira proprio perché è nascente, perché comunica una forza misteriosa di nascita e rinascita, un’energia potente e salutare.
Il Natale è la nascita di un Dio «che ride come un bimbo», come dice Ungaretti. Il nostro desiderio di vivere in modo naturale dipende dalla riscoperta dell’esser nati, dell’essere segnati dalla nascita, dall’evidenza di non essersi fatti da soli. Vivere secondo natura significa ammirare e interrogare la propria nascita. Grazie al Natale nascere non è un fuoriuscire dal ventre di una donna per entrare nel caos del mondo. No, dopo la nascita di Cristo, nascere è essere voluti.
Natale introduce nella storia l’inedito di Dio, ci porta a un livello nuovo. Questo Bambino Gesù è il simbolo del nascere. Questa buona notizia origina un cambiamento che modifica radicalmente il fondo delle cose. Noi siamo i testimoni di un parto. E di un parto che non è solo di quel Bambino, ma che è la nostra stessa nascita, la nascita del mondo. Il Natale ci rende testimoni della nascita, della fede nel nascere. Ci chiede di credere nella potenzialità che la vita possiede, anche la vita fragile, la vita nella sua condizione più ridotta. Ci sfida a dare valore a ciò che appena nasce: al germoglio e non solo al fiore, all’alba e non solo al giorno pieno, a ciò che è appena abbozzato, a quel che è fragilissimo…
La nascita di Dio cambia il mondo. Non c’è posto per dubbi e indifferenza. È vero: Dio nasce e cambia il mondo. Una nascita che porta gioia nei cuori degli uomini perché la promessa si è compiuta, scacciando incertezze e timori. E comprendere che c’è uno Sguardo più grande che “illumina il mondo” e che fa scorrere linfa vitale nelle nostre vite.
Vieni nascita! Vieni Signore Gesù!
18. MISTERO – 16 dicembre
Un giorno, sant’Agostino in riva al mare meditava sul mistero della Trinità, volendolo comprendere con la forza della ragione. S’avvide allora di un bambino che con una conchiglia versava l’acqua del mare in una buca. Incuriosito dall’operazione ripetuta più e più volte, Agostino interrogò il bambino chiedendogli: «Che fai?» La risposta del fanciullo lo sorprese: «Voglio travasare il mare in questa mia buca». Sorridendo Sant’Agostino spiegò pazientemente l’impossibilità dell’intento ma, il bambino fattosi serio, replicò: «Anche a te è impossibile scandagliare con la piccolezza della tua mente l’immensità del Mistero trinitario». E detto questo sparì.
Quest’episodio (forse leggendario) della vita del grande teologo, vescovo e santo richiama la nostra attenzione sull’incapacità umana di comprendere Dio e i suoi misteri. Accettare il mistero però non significa mortificare la ragione e saltare nel buio, ma volare sulle ali della fede e dilatare gli orizzonti.
La grandezza della ragione è sapere che ci sono misteri ad essa inaccessibili e che, come diceva Pascal, il cuore ha delle ragioni che la ragione non conosce. Pascal intendeva quel cuore capace di conoscere Dio. Così, per quanto leggendaria, la vicenda nasconde una profonda verità: l’uomo pretende di mettere le mani sul mistero della vita, di circoscriverlo asservendolo alle strettoie delle sue categorie mentali. Ciò non gli sarà permesso. Fare un passo indietro rispetto al mistero dell’uomo nella sua origine e nel suo anelito alla comunione con Dio è, anche per il credente, un atto di grande intelligenza e dignità.
Il Concilio Vaticano II in proposito ha detto così: “In realtà, soltanto nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo” (“Gaudium et spes”, n. 22); altrimenti rimane un enigma: che cosa vuole dire questa creatura uomo? Solo vedendo che Dio è con noi possiamo vedere luce per il nostro essere, essere felici di essere uomini e vivere con fiducia e gioia.
Il primo Prefazio di Natale proclama: “Nel mistero del Verbo incarnato è apparsa agli occhi della nostra mente la luce nuova del tuo fulgore, perché conoscendo Dio visibilmente, per mezzo suo siamo rapiti all’amore delle realtà invisibili”. Nel Mistero dell’Incarnazione Dio, dopo aver parlato ed essere intervenuto nella storia mediante messaggeri e con segni, “è apparso”, è uscito dalla sua luce inaccessibile per illuminare il mondo.
Il Natale è fermarsi a contemplare quel Bambino, il Mistero di Dio che si fa uomo nell’umiltà e nella povertà, ma è soprattutto accogliere ancora di nuovo in noi stessi quel Bambino, che è Cristo Signore, per vivere della sua stessa vita, per far sì che i suoi sentimenti, i suoi pensieri, le sue azioni, siano i nostri sentimenti, i nostri pensieri, le nostre azioni.
Vieni Mistero divino! Vieni Signore Gesù!
17. MARIA – 15 dicembre
Maria è donna dell’Avvento: vive l’attesa del tempo nuovo senza aspettare che le cose accadano, ma come risposta attiva alla chiamata del Signore. È pienamente presente al suo tempo attraversando la prova come espressione piena dell’amore misericordioso di Dio.
Maria, la Madre del Signore, ci spinge a guardare al domani con gli occhi di Dio, con uno sguardo di speranza; ci insegna a leggere nei piccoli segni, anche in quelli meno visibili, la presenza del Padre.
In questo tempo di prova che stiamo attraversando guardando a Maria comprendiamo che questo è anche il tempo nel quale possiamo essere segno dell’amore gratuito di Dio. Come Maria vogliamo vivere con fede forte e speranza salda questo tempo complicato, rinsaldando le relazioni fra di noi e con i fratelli che il Signore ci pone davanti nel cammino della vita, facendoci testimoni dell’amore Dio.
E adesso, con semplicità, mi rivolgo direttamente a te, Madre di Gesù e madre nostra, madre mia.
Mi piace pensarti, Maria, nel buio della notte di Betlemme. La tua debolezza sostenne la tua forza; hai saputo attraversare tante incertezze, volgendo il tuo cuore verso una luce che non si vedeva. E per questo sappiamo che non ti è estranea la “notte” incombente per il timore nei confronti di un virus che ci fa stare al buio, conosci la nostra agitazione confusa, la nostra indecisione, le paure che in certi momenti ci aggrediscono e che tu, da madre, sai abbracciare.
Mi piace ricordare quanto fu arduo il tuo cammino, pieno di ostacoli, battuto da ombre, derive e dolori. Il tuo è un immenso grembo, dove possiamo deporre tutto quel che ci fa soffrire e che tu, da madre, sai abbracciare.
Mi piace contemplare la tua capacità di ringraziare. Di ringraziare sempre e comunque anche quando gli eventi dolorosi ti trafissero l’anima. Ed è per questo che, tu, da madre, abbracci la nostra fatica di vivere; con la tua speranza abbracci la nostra forza e la nostra fragilità; abbracci quello che portiamo a termine e quello che lasciamo incompiuto; perché tutto tu comprendi.
Mi piace immaginare che in quella notte di Betlemme, con in braccio il Figlio di Dio, ti sentisti piccola, e non all’altezza, come tante volte ci sentiamo noi. E anche per questo, nel fondo di noi stessi, sperimentiamo che tu ci abbracci, madre, tu che tutto comprendi.
Così, nelle nostre “notti” vorremmo far risplendere la luce vera che squarcia il buio delle tenebre: vorremmo la stessa luce che ha illuminato la notte di Betlemme. E vorremmo sentirci, come te, Maria, avvolti dall’amore del Padre. È questo l’abbraccio che sappiamo di avere ricevuto in Cristo e che ora vogliamo ricambiare con i bisognosi, con i dimenticati, con i sofferenti, con quanti cercano una parola di speranza.
Nulla in cielo, o Madre, ti rifiuta Cristo. Tu ci ami come in terra amavi tuo Figlio.
Vieni Figlio di Maria, vieni Signore Gesù!
16. LUCE – 14 dicembre
Vorrei oggi fermarmi con voi sull’immagine della luce. Del Battista, il vangelo di Giovanni, nel prologo, scrive: “Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce”. Mi sono lasciato conquistare dall’immagine della luce e del testimone della luce. Il Messia che aspettiamo è luce. Ma la parola “luce” riferita a Gesù può assumere i connotati di una cosa astratta e non di una cosa viva.
Abbiamo fatto l’abitudine alla luce. Quasi fosse ovvio, scontato: sono al buio, premo un pulsante, la lampada si accende. Non mi sa di stupefacente. Non dico che dobbiamo tornare indietro quando non c’era l’energia elettrica ma ricuperare lo stupore per la luce, credo, sì.
Il pensiero mi va al racconto della creazione: “La terra” è scritto “era informe, deserta e le tenebre riempivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse: ‘Sia la luce!’. E la luce fu”. Ed ecco che con Gesù emerge in pienezza una luce che ci toglie dalla paura del buio.
Così vorrei pensare a Gesù luce. Non solo ci toglie dal buio della paura. Ma restituisce il colore: un viso che nel buio era quasi assente, che forse sfioravi solo con le mani, ti si riaccende con tutti i suoi colori. Gesù ci restituisce i colori.
Nel romanzo “Il Piccolo principe” si racconta di una città dove un lampionaio accende per le strade lampioni. Si legge: “Almeno il suo lavoro ha un senso. Quando accende il suo lampione, è come se facesse nascere una stella in più, o un fiore. Quando lo spegne addormenta il fiore o la stella. È una bellissima occupazione, ed è veramente utile, perché è bella”.
La luce del lampione è una luce fioca, non violenta. Viene Gesù e la sua non è una luce abbagliante. L’incandescenza della sua luce è come velata dalla sua umanità. Altrimenti sarebbe una luce che i nostri occhi non potrebbero sopportare.
Luce è anche cammino. Il card. Martini ha voluto una suggestiva epigrafe sulla sua tomba, presa dal salmo 118: Lampada per i mei passi è la tua parola, luce sul mio cammino. Ma la lampada che arde emana anche un calore. Dire che Gesù è luce vuol dire anche che è una luce che scalda il cuore.
Emily Dickinson, in una sua poesia, di una persona a lei cara dice: “Non conoscerla una pena. Averla per amica un calore tanto vicino come se il sole ti splendesse in mano”. Potremmo dirlo di una persona a cui vogliamo bene. Penso che possiamo dirlo anche e soprattutto di Gesù, della sua luce: “Non conoscerlo una pena. Averlo per amico un calore tanto vicino come se il sole ti splendesse in mano”. Come a dire che luce e amore vanno insieme, se no è luce fredda, gelida.
Essere allora una piccola luce, una debole fiammella di stoppino, ma con un calore dentro! Noi diamo testimonianza alla luce con il nostro amore, che è un caldo concreto.
Luce da lampionaio.
Vieni Luce! Vieni Signore Gesù!
GIOIA – 13 dicembre
Ci sono momenti nella storia nei quali parlare di allegria sembra una frivolezza, una forzatura. Oggi ci vuole un bel coraggio a parlare di gioia: il mondo è assillato da tanti problemi; il futuro talmente gravato da tante incognite da ridurre il presente a incubazione della paura. Ci sono tante persone che soffrono in questi giorni…io stesso ho perduto mia mamma il 23 ottobre scorso e parlare allora di gioia sembrerebbe proprio un nonsenso. Tuttavia la gioia è il segno della pace e della serenità degli animi e dei cuori. La gioia è il frutto più evidente dell’amore.
Spesso i cristiani sembriamo invece particolarmente cupi, le nostre liturgie noiose; siamo i primi che ci lamentiamo di come va la società, concepiamo la vita solo come sacrificio. Sembriamo persone oneste ma infelici. Così era il fratello maggiore nella parabola del “Figlio prodigo”, sì, il figlio bravo, sempre ubbidiente ma che avrebbe voluto in cuor suo spassarsela come il fratello minore: feste, soldi, donne…Voleva un capretto per far festa con gli amici…un amore mercenario dal cuore assente. Ragazzi, Dio non si merita: si accoglie. Un seme di allegria, di ironia, di freschezza rende allora più intensa ed autentica la nostra testimonianza di credenti e rende anche più piacevole la vita stessa!
La terza domenica d’Avvento – che oggi celebriamo – è chiamata “gaudete”, caratterizzata proprio dal segno della gioia. La gioia cristiana non è sinonimo di soddisfazione, non è questione di ottimismo: è l’avvicinarsi del Natale il motivo della nostra gioia. Non siamo più soli, il Signore viene accanto a noi.
L’attesa si tramuta ormai in speranza e la speranza in gioia: il Signore viene. La speranza poggia sulla fede e da essa si dirama dandoci la certezza della vicinanza di Dio. E la gioia del cristiano si chiama Gesù Cristo. In Cristo Dio ci ha dato tutto e ci condurrà a pienezza per mezzo dell’azione del Santo Spirito. Il Natale che si avvicina porrà dinanzi al nostro sguardo il dono supremo di Dio che ci ha dato il suo Unigenito, per renderci figli nel Figlio.
Ma la gioia ha, tuttavia, un prezzo. Sì: occorre pagare un prezzo alla gioia. Come tutte le cose preziose, la gioia autentica è al tempo stesso, paradossalmente, conquista e dono. Non viene da sé, senza il nostro impegno.
Gioire per questa lieta notizia che ci è stata consegnata, comporta per noi infatti un impegno, una fatica, che, bisogna ammetterlo, spesso ci infastidisce, ci mette a disagio, poiché vorremmo che tutto fosse più semplice e più facile. E invece no: la vita cristiana sembra essere un poco più complessa, se proprio Giovanni Battista, il Testimone, ci dice che in mezzo a noi Gesù il Messia, Colui che viene, è uno Sconosciuto: «In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete» (Giovanni 1,26).
Come possiamo allora essere nella gioia? Con la capacità di ringraziare, più che lamentandoci; con la capacità di sentire i tanti profumi dell’esistenza e di inebriarci di essi; con la disponibilità a vedere la bellezza non soltanto con gli occhi, ma a vederla anche con il cuore.
“Spesso la gioia di vivere ho incontrato: era il gorgoglio della sorgente, era lo schiudersi della foglia a primavera, era il cavallo alto levato” (don Valentino Salvoldi).
Chiediamo al Signore, noi che spesso pretendiamo di conoscerLo, affinché nell’attesa della sua venuta impariamo a gioire della gioia evangelica, che chiede, sì, impegno, fatica, ricerca, ma è fatica che libera e ricerca che ci rende un po’ più maturi…, anche nel valutare noi stessi…
Vieni Dio della gioia! Vieni Signore Gesù!
14. GENITORI– 12 dicembre
Oggi la lettera “g” mi porta a parlare dei genitori. Anche il bambino Gesù ha avuto bisogno di genitori. La paternità non s’identifica soltanto con quella biologica. Si tratta di una condizione da conquistare: in questa chiave è sempre putativa. Si diventa padre e madre. Ecco la ragione per cui, a mio avviso, la lettera apostolica del papa, “Patris corde”, in occasione del 150° anniversario della dichiarazione di san Giuseppe quale patrono della Chiesa, favorisce una riflessione di carattere universale, soprattutto nel drammatico momento storico che stiamo vivendo. Ma è una riflessione che faremo magari più in là, perché merita molto più approfondimento.
Vorrei qui parlare dei genitori a partire dalla citazione di un grande autore: “I grandi sbagli nel giudicare una persona li fanno i suoi genitori” (F. Nietzche).
I genitori, infatti, corrono il rischio di fare i “sindacalisti” e i “manager” dei figli, sempre pronti a difenderli ad oltranza, a giustificarli, ad esaltare le loro creature al di là di ogni evidenza e decenza.
Certo, comprendo bene quel che già qualcuno sta pensando: “è l’amore”. Tuttavia non bisogna lasciarsi accecare, perché il “troppo” amore può alla fine fare il male del proprio figlio. Se lo cresciamo come un principino, idolatrato, vezzeggiato, esaudito nei suoi desideri (o capricci?), considerato come il bimbo più bello e più intelligente, come un genio (appena suonicchia uno strumento musicale è il nuovo Mozart!), quel figlio non solo è un potenziale egoista e un prepotente, ma sarà pure incapace di tessere relazioni fraterne e – attenzione – si rivolterà proprio contro i suoi genitori, giudicandoli e dimenticandoli.
I genitori, inoltre, non devono pensare di diventare amici dei figli quanto i loro educatori. Di amici ne possono avere tanti…di padre e madre solo due! I figli hanno certo bisogno di sentirsi amati ma, di più, di sentirsi guidati dall’autorità dei loro genitori. Hanno bisogno di sentirsi dire dei “no”: darle loro tutte vinte o tutte facili è controproducente; la correzione e anche la giusta punizione possono essere di grande aiuto nella crescita armoniosa del bambino.
Un altro aspetto importante riguarda l’estremo opposto: quando il bambino non è accettato. Non sono pochi i bambini che, sotto i loro sorrisi nervosi, pensano: “Sono veramente desiderato?”. È terribile quando si sente dire dalla propria madre: “Sei arrivato inatteso, sei un incidente”. Il mondo è pieno di gente che si chiede se non sarebbe stato meglio se non fosse mai nata. Quando non ci si sente amati da chi ci ha dato la vita, spesso si soffre per l’intero arco dell’esistenza.
“La grande battaglia spirituale – afferma Henry Nouwen – inizia e non finisce mai con il rivendicare il nostro ‘essere scelti’. Prima ancora che qualsiasi essere umano ci vedesse, siamo stati visti dagli amorevoli occhi di Dio…La nostra preziosità, unicità e individualità non ci sono state date da coloro che incontriamo nell’arco del tempo ma da Colui che ci ha scelto con infinito amore, un amore che esiste da tutta l’eternità e che durerà per tutta l’eternità”.
Si, non siamo qui per caso. Siamo stati scelti. Questa è la base per sentirsi davvero amati. Riconoscere e rivendicare questa verità ci fa lottare per tutta la vita, ma è anche una gioia (della gioia parleremo domani) che dura tutta la vita.
Vieni Dio Padre e Madre! Vieni Signore Gesù!
13. FRATERNITA’ – 11 dicembre
Non sono certamente un “sorcino”, ma alcune canzoni di Renato Zero sono proprio belle. Come “Più su”, un inno all’amore ed alla fratellanza, scritta dallo stesso Renato Zero e musicata con Dario Baldan Bembo nel 1981. È una di quelle canzoni che non ti stanchi mai di ascoltare e di cantare. Il testo immagina un incontro con Dio chiedendosi in che modo si sia meritato tanta grazia pur non avendo mai conosciuto l’amore.
I versi sottolineano la forza dell’amore nell’apparente banalità della vita quotidiana: “…sboccia un fiore malgrado nessuno lo annaffierà, mentre l’aquila fiera in segreto a morire andrà, il poeta si strugge al ricordo di una poesia, questo tempo affamato consuma la mia allegria, canto e piango pensando che un uomo si butta via, che un drogato è soltanto un malato di nostalgia, che una madre si arrende e un bambino non nascerà, che potremmo restare abbracciati all’eternità…”.
Oggi purtroppo stiamo vivendo una crisi della fraternità molto attestata. Possiamo constatarla nella nostra Italia dove sono cresciuti il rancore e la cattiveria e, attraverso la negazione di molti legami sociali, si nega la fraternità.
Per vivere la fraternità occorre sempre che ci sia l’altro e che sia affermata la relazione, la quale resta la nostra prima vocazione.
Sull’urgenza della fraternità è tornato a più riprese anche papa Francesco. Penso in particolare all’importante documento “Sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune” firmato il 4 febbraio 2019 ad Abu Dhabi insieme al Grande Imam di Al-Azhar, e, per ultimo, all’enciclica “Fratelli tutti” del 4 ottobre 2020.
La forza della fraternità è la nuova frontiera del cristianesimo.
Fondamento della fraternità è Dio, il Padre di tutti, e affinché questa verità sia affermata in modo assoluto, occorre andare “Più su”, in modo che tutti si sentano figli e figlie e, di conseguenza, fratelli e sorelle tra loro.
Dicevano i pagani in riferimento ai primi cristiani: “Guarda quanto si amano vicendevolmente!”, e il papa vuole che lo si dica anche oggi, vuole che lo dicano i non cristiani guardando a una Chiesa fraterna.
Non ragionando mi scopro “fratello”, ma ricorrendo ad un comune Padre, che crea vincoli di fraternità.
Vieni Padre, venite fratelli, vieni Signore Gesù!
12. FEDE – 10 dicembre
Non poteva mancare in quest’alfabeto di Avvento la lettera riguardante la “fede”.
E ne vorrei parlare con le parole di un non credente! Siamo nel Natale del 1940 (esattamente 80 anni fa), nel campo di concentramento nazista di Treviri. Al filosofo francese Jean-Paul Sartre, internato anch’egli, i compagni di prigionia avevano chiesto a lui, che conoscevano come letterato, un qualcosa su cui riflettere a Natale…E lui scrisse un dramma: “Bariona o il figlio del tuono”. Da questo dramma vi cito un passo:
“Uomini duri e seri, inginocchiati davanti a un bimbo che vagisce. Sono lì, ingenui e felici, nella stalla tiepida, dopo la grande corsa nel freddo. Hanno le mani giunte e pensano: qualcosa è cominciato… Qui fuori è notte. E io resto nella grande notte terrestre, nella notte tropicale dell’odio e dell’infelicità…Darei la mia mano destra per potervi credere, almeno per un istante. È colpa mia, Signore, se mi hai creato come una bestia notturna e hai scolpito sulla mia carne questo terribile segreto: non ci sarà mai un mattino”.
Sartre parla evidentemente di se stesso, “uomo della notte”, “bestia notturna”, per il quale non ci sarà mai un “mattino”. E tanti sono immersi nella “notte tropicale dell’odio e dell’infelicità”, una situazione verso la quale tutti potremmo ritrovarci. Eppure a tutti è data “la possibilità di credere a un inizio”, all’aurora di un giorno diverso.
Chi ha la fede non è che se la passi meglio degli altri, non è che sia sciolto dai nodi delle tentazioni più di chi non crede e non è neppure più fortunato nella vita. Chi crede, però, ha la possibilità di “vedere” un altro orizzonte, di vedere le cose in maniera diversa, nella loro profondità, nel loro significato ultimo.
L’esperienza autentica della fede è la fiducia in Dio, che raccoglie nelle sue mani tutto l’arco della nostra vita, dal suo sbocciare al suo appassire, che conosce ogni nostro frammento di felicità ma anche ogni stilla di lacrima. La fede è trovare una mano più forte della nostra a cui aggrapparsi. La fede è una forza luminosa.
A chi geme perché non ha la fede sussurro: anche se tu non credi in Dio, Lui crede in te. Verrà il tempo in cui capirai e a Dio darai ragione.
Con Dio il mondo rimane mistero, ma senza di Lui è assurdo. E non ha nulla da perdere chi scommette sul Mistero. La fede aumenta se la comunichi agli altri, mostrando la gioia di essere aggrappato al Signore. Se, credendo, speri, godrai di quell’Amore che anticipa in terra il paradiso.
Amando, vediamo l’Invisibile. Si, ci sarà un “mattino”.
Vieni Mattino, vieni Signore Gesù!
11. ETERNITA’ – 9 dicembre
Ha scritto un grande scrittore francese, George Bernanos: “Gesù ha amato come un uomo, umanamente, l’umile eredità dell’uomo, il suo povero focolare, le strade grigie indorate dall’acquazzone, i villaggi coi loro comignoli, le piccole case nelle siepi spinose, la pace della sera che scende e i bambini che giocano sulla soglia”. Queste parole luminose esaltano l’umanità di Gesù, il suo essere accanto a noi condividendo le nostre realtà di ogni giorno. L’Incarnazione del Verbo eterno è l’ingresso di Dio nelle nostre case, il suo mettersi a tavola con noi, il cammino sulle nostre strade, l’attesa dell’alba o la dolcezza struggente di certi tramonti…
Ma c’è di più. Cristo non diventa nostro fratello per esaurirsi in noi, non si ferma nelle frontiere del nostro piccolo mondo. Bernanos infatti continua: “Ha amato tutto ciò umanamente, alla maniera di un uomo, ma come nessun uomo l’aveva mai amato”. Entrando nella nostra storia di creature Gesù, il Figlio di Dio, vi depone un seme di eternità, una fecondità che tutto trasforma, “come nessun uomo” prima e dopo di lui.
Un seme di eternità è disceso dal cielo a fecondare ogni vita, ad animare ogni corpo. A dare senso anche alla morte. La nostra società fa di tutto per esorcizzare la presenza della morte, la nasconde e la teme perché non ne conosce l’autentica segreta bellezza, quella dell’essere un abbraccio di Dio attorno alle nostre misere membra. È l’abbraccio tra eterno e finito. Un’eternità che comincia qui in terra: felicità, beatitudine, gioia riservate a chi si perde in Dio.
“Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, dice un celebre verso di Luigi Pavese. Per chi crede gli occhi che si incroceranno con i suoi saranno quelli di Dio stesso. L’eternità è comunione con Lui, con la stessa vita di colui che è Amore. Questo significa “vita eterna”: Amore, vita divina. Passando il tunnel di questa esistenza terrena ci attende l’abbraccio del Padre e, finalmente, lo vedremo così come Egli è.
Vieni Eternità! Vieni Signore Gesù!
10. DONO – 8 dicembre
Periodo di scambi di doni, questo. Forse stiamo già pensando: cosa potrò regalarle/gli? Le/gli piacerà? Sarà gradito? Diceva Kafka: “Nessun regalo è troppo piccolo da donare, e nemmeno troppo semplice da ricevere, se è scelto con giudizio e dato con amore”.
Lo sappiamo bene: c’è grande povertà nel mondo: quella delle persone che non sono mai contente di nulla, quella di chi non sa né ridere né piangere, quella di coloro che non sanno dare nulla di sé agli altri. Poi c’è la povertà ancora più gelida: quella dovuta alla mancanza d’amore.
L’inverno del cuore è sostanzialmente il vuoto d’amore.
C’è un verso di un poeta a me molto caro, Giuseppe Ungaretti, che dice: “Il vero amore è una quiete accesa”. Sì, l’amore dà pace ma anche fervore, è una fiamma che non consuma ma rischiara e riscalda.
Poi c’è un’altra considerazione che vorrei fare: si può regalare a piene mani e non trovare gratitudine. Qual è il motivo? Penso che il modo di donare vale più di ciò che si dona. Nell’aiutare un’altra persona (ma potremmo allargare il discorso a tutte le azioni) non è decisivo solo quel che si fa, il dono, il gesto. Importante è anche la maniera, lo stile, il modo. È, questo, un aspetto a cui poco si bada, soprattutto ai nostri giorni spesso sciatti e trasandati. Se, infatti, si dà un aiuto e lo si fa pesare, è inevitabile che esso perda una buona parte del suo merito. Se si fa capire che si attende in futuro un ricambio, la gratuità si dissolve. Se si offre un sostegno ma lo si destina all’altro in modo sbrigativo, come un fastidio o un dovere da liquidare nel più breve tempo possibile, si umilia il destinatario facendogli capire di essere un impaccio sgradito. Lo stile è un fatto decisivo, fa parte della sostanza stessa dell’azione e non solo della forma esteriore. Il modo di donare è spesso più importante del dono stesso.
Penso che ci sia oggi non un’urgenza di doni ma di dono.
E ricorda che quello che dai agli altri torna a te moltiplicato per cento. Possiedi veramente tutto quello che dai. Quello che non doni, ti possiede. Dona e domanda a tutti l’amore che, condiviso, si moltiplica all’infinito.
Quello che Dio ci chiede è, in definitiva, il dono di noi stessi. Questo dono anche fragile, anche balbettante, ha la capacità, una volta riposto nel cuore di Dio, di intessere tutta la bellezza che non abbiamo fin qui ottenuto.
Maria Immacolata, la Tutta Bella, la Tutta Santa, la Tutta Dono, che oggi abbiamo ricevuto in dono, preghi per noi.
Vieni Dono di Dio, vieni Signore Gesù!
9. COSCIENZA – 7 dicembre
In questi giorni si fa un gran parlare delle vacanze di Natale, di viaggi in montagna e sulla neve che, con rammarico di tanti, sembrano sfumare. Però c’è un viaggio, un’esplorazione che non dovrebbe mancare mai nella vita di ciascuno: discendere nel profondo del proprio cuore. Questo è il viaggio più arduo e più profondo: entrare nel mistero della nostra anima. Non si tratta di un viaggio facile, al contrario può riservare sorprese amare ed è forse per questo che cerchiamo di allontanarci in fretta da noi stessi. Scriveva, infatti, nei suoi “Pensieri”, Pascal: “Come è insondabile il cuore dell’uomo e pieno di lordure!”. Eppure è solo attraverso questa scoperta di sé che può rinascere la forza di lottare e di sperare. Il cielo sopra di te e una voce dentro di te ti sfidano a cambiare te stesso, se vuoi cambiare il mondo.
Vorrei parlarvi di una donna che ha vissuto questo “Viaggio” nel profondo della propria coscienza, del proprio cuore. Si tratta di Etty Hillesum, una giovane donna olandese, ebrea, di straordinaria intelligenza e spiritualità, vittima anche lei, nel 1943, della barbarie nazista. Etty, che avverto come amica e “compagna di viaggio”, ci ha lasciato un “Diario” dedicato all’esperienza da lei vissuta negli ultimi anni della sua vita. Vi riporto un brano molto significativo: “Se Dio non mi aiuterà più, allora sarò io ad aiutare Dio…Ti prometto, ti prometto che cercherò sempre di trovarti una casa, un ricovero. In fondo è una buffa immagine: io mi metto in cammino e cerco un tetto per te. Ci sono tante cose vuote, te le offro come all’ospite più importante”.
Grande Etty! Dio cerca un cuore, una coscienza, un’anima come casa. Tanti cuori sono vuoti e potrebbero essere aperti all’ospite “più importante”.
Che dite, in questo Natale, Dio troverà un “tetto” per lui?
Vieni nella mia “casa”, vieni Signore Gesù!
8. CAMBIARE – 6 dicembre
Oggi è la seconda domenica di Avvento. E prendo spunto dai testi della liturgia. Leggo dal profeta Isaia. Ne stralcio un frammento: “Consolate, consolate il mio popolo – dice il vostro Dio –”. Che bello questo “consolate” ripetuto: Lui è il nostro consolatore. Avvento, attesa di consolazione. Che nasce da una coscienza nobile della nostra precarietà.
E sfioro il vangelo di oggi. “Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri, vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati”.
Conversione, o forse meglio, con parole più comprensibili oggi a noi: “Cambiare il cuore”! Si tratta del cuore. A partire dal cuore. Anche in questi giorni.
Ma è possibile un cambiamento del cuore? Il cambiamento sarà possibile se anche noi facciamo “deserto”. Il deserto come luogo per un contatto con se stessi e con Dio. Il deserto è il luogo in cui vivi dell’essenziale, ti spogli dell’appesantimento di tante, troppe cose.
Di Giovanni è detto: “voce di uno che grida nel deserto: preparate la via del Signore”. Preparatela, sembra dire Giovanni, e sembra dirlo anche a me, e a te che mi stai leggendo. Preparate la via del Signore facendo l’esperienza del deserto. Se no, non è via del Signore. Preparatela. Uscendo dal frastuono, dal disordine. Prendi anche tu come maestro il silenzio. E nel silenzio ascolta la tua voce più profonda, perché tu hai una voce più profonda, un’attesa più profonda. Nel silenzio ascolta la voce di Dio, che parla nel deserto. Gandhi diceva: “Non ho bisogno di grotte lontane, porto la grotta dentro di me”. Perché è dal deserto che nascono i cambiamenti, i cambiamenti reali. E non solo di facciata.
Il Battesimo simboleggia e la morte e la rinascita.
Ogni uomo sa di dover morire e il suo desiderio é di rinascere a vita nuova, che la morte non sia l’ultima parola.
Il Battista propone il Battesimo, cioè un passaggio per una vita nuova. E lo propone nel deserto. È interessante. Non nei palazzi, non nelle città ma nel deserto.
E lì proclama un Battesimo che non é un gesto magico, ma é di conversione. Convertirsi vuol dire cambiare direzione alla vita. Quindi propone una vita che non é semplicemente dire: battezziamoci, é un bel rito e poi tutto come prima. No, qualcosa che cambia radicalmente la vita. Prima andava in una direzione, era la direzione della paura, della fuga, della chiusura, dell’egoismo, della morte, del potere. È un’altra strada. Un’altra strada che ti fa uscire dai peccati. Sono termini fondamentali: il perdono e il peccato. Il peccato, in ebraico vuol dire “fallimento”. Tutti i tuoi fallimenti. I miei. Sono tanti.
Perché, vedete, si può venire in chiesa soltanto per un rito e non per un cambiamento. Non per cambiare. E io per che cosa vengo, per un rito o per un cambiamento, per una conversione? Come lo sto vivendo questo Avvento?
Ma vorrei sottolineare che la conversione – il cambiamento del cuore – non ha immediatamente un significato moraleggiante, è invece invito a volgerci a colui che viene, che viene sempre nella nostra vita, ad andare dietro di lui, Gesù.
Convertirci è volgerci a Gesù, stare dietro Gesù, prendere come esempio Gesù. Perché per primo lui si è convertito! Si è rivolto a noi. Cosa questa che cambia la vita.
Confrontando il suo battesimo con quello di Gesù Giovanni dice: “Io vi battezzo nell’acqua per la conversione…egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco”. È fuoco di passione. Quella passione che a volte ci viene meno nella vita. Spassionati, senza passione, senza fuoco. Iceberg.
Battezzati, immersi, non in un pallidume, ma nel fuoco. Il fuoco dice passione. Il pericolo che avverto, forse perché sto invecchiando, nelle strutture ecclesiali e in quelle civili, è quello dell’opacità e della stanchezza.
Prego affinché le nostre giornate ritornino ad essere abitate dal fuoco, da una passione. Non un “fare tanto per fare”, ma un fare acceso da una passione. Battezzati in Spirito Santo e fuoco.
Ogni giorno cerco di cambiare, di convertirmi, per potermi ancora dire cristiano. Avvento è consolare, è cambiare il cuore.
Vieni Consolatore, cambia il mio cuore! Vieni Signore Gesù!
7. BENE – 5 dicembre 2020
Vinci con il bene il male (Romani 12,21). Vinci l’inimicizia uscendo dalla sua logica, dalla sua spirale, vincila seminando amicizia, annullando il concetto stesso di nemico.
Guarda tuo marito, tua moglie, tuo figlio, tuo fratello, l’immigrato, la badante, l’avversario cercando il bene in ognuno. E del bene gioisci e fa’ gioire.
Solo il bene di una persona ti dice la verità su quella persona. Solo il bene rivela l’uomo. Il male certamente esiste, ma non è verità, viene dopo, non è rivelatore della verità dell’uomo. Il male esiste nelle religioni, nei popoli, ma non è la loro verità. E anche nell’ultimo giudizio il Signore dirà: ho avuto fame, freddo, paura; avevo deserti dentro di me e tu mi hai dato pane e amicizia, tu hai risvegliato vita, tu hai asciugato lacrime (cf Mt 25). Il bene riscatta il male della vita.
Perché, agli occhi di Dio, il bene conta più del male, il bene pesa più del male. Il male si vince con il bene. Perché il bene è più forte.
La prima morte sulla terra è quella di un fratello ucciso da un altro fratello. La prima preghiera sulla terra è quella del sangue di Abele: “la voce del sangue di tuo fratello grida a me dalla terra”.
Ed ecco come Dio risponde: Il Signore impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l’avesse incontrato (Genesi 4,15-16). Dio interviene per la prima volta sulla terra e lo fa e lo farà sempre e solo in difesa dell’uomo. Dio è perfino dalla parte di Caino e protegge anche Caino, quando è braccato, per proteggerci tutti.
Chi uccide Caino non fa che moltiplicare la violenza e la morte. Sarà ucciso sette volte, che vuol dire: se non rompete questa spirale della violenza, non farete altro che moltiplicare le morti. Non c’è mai atto di odio che non moltiplichi altro odio all’infinito.
Maria Immacolata è l’anticipo di ciò che avverrà per tutti: una creatura senza macchia che è solo bontà, uno sguardo che non perde l’innocenza della sua luce, una mano incapace di colpire, una parola incapace di ferire, una innocenza minacciata sempre eppure sempre vittoriosa, una carezza senza ambiguità, un cuore senza divisioni, una verginità senza rimpianti, una maternità senza possesso, un frutto non avvelenato dal serpente. Che vince il male con il bene. In lei la creazione è vergine di nuovo.
Concludo con una poesia di padre Turoldo che esprime magnificamente tutto ciò che ho tentato di dire.
Canta il sogno del mondo.
Ama saluta la gente.
Dona.
Ama ancora e saluta…
Nessuno saluta del condominio e neppure per via.
Dai la mano. Aiuta. Comprendi. Dimentica. E ricorda solo il bene.
E del bene degli altri godi e fai godere. Godi del nulla che hai.
Del poco che basta giorno dopo giorno.
E pure quel poco se necessario dividi.
E vai, vai leggero dietro il vento e il sole e canta.
Vai di paese in paese e saluta.
Saluta tutti.
Il nero l’olivastro.
E perfino il bianco.
Canta il sogno del mondo:
che tutti i paesi si contendano
d’averti generato. (David Maria Turoldo)
Vieni Sommo Bene! Vieni Signore Gesù!
6. BENEDIZIONE – 4 dicembre 2020
“…Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione” (Gn 12,1-2). Diventerai una benedizione! È questa la straordinaria promessa che Dio fa ad Abramo. La benedizione di Dio non solo ci raggiunge e ci guarisce in profondità, ma nello stesso tempo ci restituisce la percezione di un compito; anche noi possiamo diventare una sorgente di benedizione per gli altri. Si tratta di imparare a dire a ciascuno dei nostri compagni di viaggio, con i fatti più che con le parole: Tu per me sei importante, non è la stessa cosa che tu ci sia o non ci sia. Ognuno di noi diventa maturo quando è diventato una benedizione per gli altri.
La benedizione di Dio ci protegge lungo il nostro cammino. La sua benedizione è una energia, una forza, una fecondità di vita che scende su di noi, ci avvolge, ci penetra, ci alimenta. Nella Bibbia la benedizione indica sempre una forza dinamica, una energia che scende dall’alto, entra in te e produce vita. Come la prima di tutte le benedizioni: Dio benedisse l’uomo e la donna dicendo «crescete e moltiplicatevi».
La benedizione mi fa crescere in umanità, perché io sia sempre più umano e sensibile e sognatore, è un incremento d’umano. L’uomo e la donna non siamo esseri mortali, ma esseri “natali”, che non finiamo mai di nascere del tutto e di far nascere cose belle; siamo moltiplicatori di vita.
Vita che cresce, in noi e attorno a noi. La benedizione è questa forza più grande di noi che ci avvolge, ci incalza; un flusso che non viene mai meno, a cui possiamo sempre attingere, anche nel tempo delle malattie e delle delusioni, anche e soprattutto durante questa pandemia.
Se non impariamo a benedire non saremo mai felici. Ogni cristiano – ricorda il mio amico don Buccellato – ha l’autorità di benedire e, in quanto benedetto da Dio, può essere a sua volta una benedizione per gli altri.
E allora vi benedico con le parole di un’antica benedizione:
Possa la strada venirti incontro
Possa il vento soffiare alle tue spalle
Possa il sole splendere caldo sul tuo volto
La pioggia cadere leggera sui tuoi campi
E fino a quando non ci incontreremo di nuovo
Possa il Signore tenerti
Nel palmo della sua mano.
Vieni Benedizione! Vieni Signore Gesù!
5. BELLEZZA – 3 dicembre 2020
Cristo è venuto ed ha fatto risplendere la vita. È venuto nella vita, la mia e del mondo, e non se n’è più andato. È venuto come luce nelle tenebre, e le tenebre non l’hanno vinta (Gv 1,5). È venuto come Bellezza.
Dice la Laudato sii di papa Francesco di prestare attenzione alla bellezza, ammirare, apprezzare il bello vuol dire impedire alle persone e alle cose di trasformarsi in oggetti di uso ed abuso. Sono quattro verbi importantissimi: prestare attenzione, amare la bellezza; ammirare e apprezzare il bello vuol dire amare l’anima delle cose tutte.
La bellezza è da regalare a tutti, almeno per frammenti, e poi da custodire sempre sopra le macerie dell’abuso del mondo, di questa nostra terra barbara e magnifica.
La bellezza è un nome di Dio. San Francesco diceva a Dio: “Tu sei bellezza”. La bellezza è Dio che ama e crea comunione.
Il bello e il buono sono la prima chiave interpretativa della realtà, adottata da Dio stesso. Dio legge il mondo con la categoria della bellezza, in principio. Nel primo capitolo della Genesi, quando il Creatore si volge a guardare ciò che aveva fatto, per sei volte esclama: “Che bello!” E una settima volta dice, dell’uomo e della donna: “Ma sono bellissimi!”. E che cos’è il giardino dell’Eden se non il luogo dell’armonia e della bellezza?
La bellezza è il progetto di Dio per l’uomo e per il cosmo. E la vita spirituale consiste nel liberare tutta la bellezza sepolta in noi. Diceva Dostoevskji: “Il vostro male è che non sapete quanto siete belli”. La vita spirituale è liberare bellezza seminata in noi. Naturalmente parliamo della bellezza non solo fisica, bensì della bellezza di un gesto, di un atteggiamento. Così avviene con Dio.
Attenzione però: la bellezza può essere anche mortale. Ricordate Giovanni Battista ucciso per la danza di Salomè, che piaceva al vecchio Erode? La bellezza può essere vitale o mortifera. C’è una ambiguità radicale insita nella bellezza, ma quando è per l’amore allora è buona.
Ciò che ti attira è la bellezza e bello è ogni atto d’amore; bellissimo è chi tu ami. La legge prima della bellezza è nell’atto d’amore.
Occorre avere gli occhi che sanno incantarsi ancora. Cos’è allora la bellezza? È l’incanto della prima volta. Ad esempio, la prima volta che ho visto il mare, la prima volta che ho visto Roma. Poi purtroppo ci si abitua. L’Eternità invece è l’incanto, il miracolo della prima volta che continua a ripetersi. L’Eternità è non abituarsi. Se noi riusciamo a salvarci da questa abitudine, possiamo camminare incantati. Possiamo camminare da innamorati.
Vieni Bellezza, Vieni Signore Gesù!
4. BAMBINO – 2 dicembre 2020
L’attesa del Natale ci chiede di essere come bambini, di avere un cuore semplice, fiducioso, capace di vivere il Vangelo delle piccole cose, di tradurre il Vangelo nella vita quotidiana. Invece a volte noi siamo troppo sofisticati, efficienti e dimentichiamo che il Vangelo arriva sempre in una sorta di infanzia spirituale.
All’infanzia spirituale è dedicato uno dei testi più belli della Bibbia, il salmo 130/131: «Signore, non si esalta il mio cuore / né i miei occhi guardano in alto; / non vado cercando cose grandi / né meraviglie più alte di me. / Io resto quieto e sereno: / come un bimbo svezzato in braccio a sua madre, / come un bimbo svezzato è in me l’anima mia».
Che cosa significa decidere di essere spiritualmente un bambino? Forse consiste in due atteggiamenti di fondo: stupore e fiducia. Stupore di esserci, di esistere, e fiducia di esserci non a caso ma perché voluti e pensati da Qualcuno che chiamiamo Dio. Dio possiamo paragonarlo a una madre che ci nutre e che ci porta: tu come ti trovi tra le sue braccia? Sei tranquillo e sereno, o al contrario sei inquieto e stai male?
Gesù pensava a questa fiducia e stupore quando diceva che per entrare nel regno di Dio occorre diventare come i bambini.
Mi viene in mente una piccola storia raccontata in un libro. Vi si parla di un bambino, Diego, che viaggia verso sud con il padre per vedere per la prima volta il mare. Quando, dopo molto andare, arrivano alla spiaggia, il mare è là, davanti ai suoi occhi. Era un azzurro e un’immensità ininterrotta senza parole. E il figlio, stringendosi al padre, gli chiese sottovoce: «Aiutami a guardare!». Credo sia questo ciò che dobbiamo chiedere a Dio.
Farsi bambini è rinunciare alla superbia, alla sufficienza, riconoscere che, per imparare a camminare e perseverare nel cammino, da soli non possiamo nulla, ma abbiamo bisogno della grazia di Dio nostro Padre. Essere piccoli significa abbandonarsi come sanno abbandonarsi i bambini, credere come credono i bambini, pregare come pregano i bambini.
E allora voglio vivere ogni alba come un bambino
che con gioia affronta un nuovo giorno
come fosse il primo, l’ultimo, l’unico.
Voglio vivere ogni giorno per apprendere ad amare
senza misura, senza paura, nel tempo senza fine.
Vieni Bambino Divino, vieni Signore Gesù!
3. ARTE – 1 dicembre 2020
Oggi il mondo è in una situazione di sofferenza senza precedenti: regnano la disuguaglianza, l’instabilità e la disarmonia. Ci sono moltissime minacce davanti a noi: oltre e prima della pandemia, la crisi economica globale, la polarizzazione della ricchezza, la povertà endemica, la discriminazione e l’estremizzazione dei conflitti ideologici. Abbiamo perso la strada, e vaghiamo senza meta in questo mondo incerto e instabile. Il recupero della nostra umanità e spiritualità può rinascere solo dalla semplice constatazione che siamo tutti esseri umani. E l’arte, suprema verità, bellezza e bontà è come uno specchio che ci richiama alla nostra vera identità, spingendoci a diventare migliori.
Se c’è una cosa che il coronavirus ci ricorda è che il respiro è vita. Abbiamo bisogno di respirare per vivere. Non solo fisicamente. La nostra anima ha bisogno di respirare per vivere. L’arte ci aiuta a respirare. Apre squarci. Attrae gli occhi e rimanda oltre.
L’arte è un ponte verso il mistero delle cose, cioè ci porta a vedere le cose come mistero. Il rischio quotidiano è ridurre tutto a “cosa” misurabile e pesabile. In verità ogni oggetto e ogni persona sono sempre “molto di più”. La verità non è ciò che so, ma ciò che non so ancora, ciò che mi sfugge, che riesco solo a intuire. La verità è “sempre più grande”. Proprio questo è il significato vero di “mistero”: “qualcosa di più grande”.
L’arte non dimostra, mostra. L’arte evoca, porta in sé un’apertura, ci aiuta ad ampliare lo spazio. Rendendo il mondo un po’ più respirabile. Meno fisso, meno angusto. Meno ripiegato su se stesso. Capace di ricerca, di attesa, di sogno. Capace di profezia. Per aiutarci a guardare le cose da altri punti di vista. Addirittura per aiutarci a sognare altri mondi possibili.
L’arte è stupore. Ci fa intuire che c’è qualcosa di bello al mondo. Che c’è un senso a tutto questo. Assaliti dalla pandemia e dalle sue conseguenze ci sentiamo fragili, precari, impauriti. L’arte ci stupisce con attimi di bellezza. Per farci sentire vivi, felici di respirare.
E quando scoprirai che tu, proprio tu, sei un’opera d’arte, unica e irripetibile,
non dubiterai di essere immagine e somiglianza di Dio.
Vieni Artista divino, vieni Signore Gesù!
2. AMA L’IMPERFEZIONE – 30 novembre 2020
Ieri ho accennato all’amicizia. Spesso “scegliamo” gli amici in base alla loro importanza, apparenza, statuto sociale, perfezione. E non accettiamo l’imperfezione. In realtà accettare l’imperfezione è lasciare la porta sempre aperta, è dare la possibilità di ricominciare. Amare l’imperfezione ci permette di accogliere le fragilità (a cominciare dalle nostre). Amare l’imperfezione ci umanizza e ci divinizza, perché Dio si è fatto come noi, ha accettato la nostra realtà più profonda. Amare l’imperfezione è la condizione che ci occorre per maturare davvero come persone e per crescere nell’amicizia autentica e non banale.
La poesia di Adília Lopes lo esprime meravigliosamente:
“Se ami a causa della bellezza, allora non amarmi!
Ama il Sole che ha capelli dorati!
Se ami a causa della gioventù, allora non amarmi!
Ama la primavera che tutti gli anni è giovane!
Se ami a causa dei tesori, allora non amarmi!
Ama la Donna del mare: possiede molte perle bianche!
Se ami a causa dell’intelligenza, allora non amarmi!
Ama Isaac Newton: egli ha scritto i Principi Matematici della Filosofia Naturale!
Ma se ami a causa dell’amore allora, sì, amami!
Amami sempre: per sempre ti amo!”.
Vieni Amore, vieni Signore Gesù!
1. AMICIZIA – 29 novembre 2020
L’amicizia è una prerogativa umana che ci accompagna da sempre, è la capacità di accogliere e ascoltare l’altro nella sua diversità. Guardando alla storia del mondo sappiamo già che i grandi momenti di pace furono in larga misura frutto di amicizie. Allora l’amicizia non è solo una questione affettiva, diventa anche una questione “politica” e sociale. L’amicizia è una miniera di pensieri, progetti, storie, che possono ispirare nuovi modi di concepire il mondo e di costruire l’atteggiamento verso l’altro. L’altro, che tante volte vediamo come una minaccia, invece è una possibilità, un’ipotesi di crescita.
Quello che ci fa più paura è capire che il nostro modo di vivere non regge più, perché non risponde ai bisogni attuali. Siamo a un crocevia storico, abbiamo bisogno di nuovi paradigmi di costruzione sociale (“Fratelli tutti”, ha scritto papa Francesco): l’amicizia può aiutarci per arrivare a nuove forme di stare insieme.
L’amicizia è anche un viaggio verso l’altro. Il vero viaggio che ci salva non è intorno a noi stessi ma verso l’altro, perché sono le relazioni che ci aprono il cuore. Ci fa accettare la diversità: io resto io e tu resti tu, differenti ma amici.
Oggi si sta diffondendo la mentalità di aver paura dell’altro, da cui ci difendiamo, costruendo muri, non ponti.
Talora anche la stessa parrocchia, che dovrebbe essere luogo di accoglienza, può diventare un fortino. Talvolta le nostre comunità sono sorde, hanno dimenticato questa risorsa di vita che è l’incontro con l’altro, e con l’altro più fragile, più malato, più bisognoso.
Il Signore ci chiede: “Dov’eri tu quando io avevo fame e sete, quando ero in prigione, quando avevo bisogno di aiuto? Dov’eri? Questa è una domanda infuocata, ineluttabile. Che questo tempo di Avvento ci servi a recuperare una capacità di attenzione alla realtà che non abbiamo più e, nell’incontro con l’altro, riconoscere Cristo nel mezzo della storia, altrimenti il mondo diventerà un luogo deserto.
Vieni Amico, vieni Signore Gesù!