Carissimi Presbiteri,
Viviamo questo Giovedì Santo in modo inedito. Non celebriamo la Messa crismale, dove facciamo memoria dell’unzione di Cristo, inviato dal Padre, e rinnoviamo le promesse sacerdotali. Speriamo di celebrarla fra non molto.
La cesoia del virus, che infligge una dolorosa ferita al tempo che ci è dato vivere, coincide con la quaresima e il tempo pasquale. Ascoltando quotidianamente la Parola di Dio cogliamo toni nuovi nel nostro cuore, sicché il “passare estatico” della Pasqua si configura ai nostri occhi in maniera sinora impensabile. Un “passaggio”, infatti, è imposto all’umanità del nostro tempo, perché nulla sarà come prima. Come accadde, però, agli Ebrei dell’Esodo o a quelli dell’Esilio babilonese, come accadde ai Giudei del tempo di Gesù, non tutti passarono e raggiunsero la Terra promessa, la nuova sponda tra la storia e il suo oltre. Solo coloro che ebbero fede, rimasero stabili e videro la manifestazione della gloria di Dio. Tanti perirono perché rimpiansero quello di cui avevano goduto e che adesso mancava loro. Questo è un tempo di grazia; non va sprecato, ma custodito gelosamente nel cuore, alla scuola di Maria di Nazareth.
Il tempo a venire può essere immaginato a fosche tinte, fatto di ben altre restrizioni che quelle del movimento fisico; la crisi economico-sociale sembra spalancarsi dinanzi a noi con ripercussioni di non poco conto su ogni settore della società, anche sulla nostra vita ecclesiale. Per altro, più di cento sacerdoti sono morti in Italia in questo periodo. Sembra che la creazione di Dio richieda maggiore cura, mentre la società anela a una rinascita. Il cambiamento potrebbe disorientare anche noi, clero, perché cambiano i quadri di riferimento, l’orizzonte culturale e le abitudini nei quali abbiamo vissuto. In pieno attraversamento del guado ci giunge ancora, nuovo e vivo, l’annuncio del mattino di Pasqua: «Surrèxit Christum spes mea: præcèdit suos in Galilaèam». Cristo vivo è avanti a noi.
Come egli disse ai discepoli a proposito del cieco nato – «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio» – siamo chiamati a vedere la gloria di Dio in questo nuovo tratto di storia e ad annunciarla nella predicazione. Siamo chiamati, certo, a contribuire alla rinascita del Paese e del nostro territorio con la riflessione, gli incoraggiamenti, il nostro lavoro. Così fecero i nostri padri più volte nel secolo scorso e noi non possiamo tirarci indietro, perché la Nazione attende il contributo dei cattolici. Aiuteremo sempre, come la gran parte di noi lodevolmente fa in queste settimane, i più bisognosi, stando in prima linea accanto a tanti generosi volontari.
C’è nondimeno un nucleo del ministero che non può sfuggirci in questo sforzo attivo di renderci prossimi all’altro, quello che apre i nostri occhi alla luce e alla vita. In questi giorni di apparente silenzio e stasi, in cui non abbiamo facilmente una parola da annunciare nei luoghi abituali, sia dalle persone sia dal profondo del nostro stesso cuore le domande per noi si fanno più pressanti e graffianti. Non bastano parole sciorinate a profluvio in linguaggi stantii, rassicuranti per cerchie ristrette. La morte è più vicina che in altri tempi; essa si aggira per le strade e le stanze di ogni casa nelle invisibili sembianze del virus “nemico” e sconosciuto, ponendo precise domande. Qual è il valore del nostro vivere terreno? Quel che tocco e vedo è trasparenza dell’Eterno? O ad esso mi ritrovo incatenato e bloccato? Sono convinto nell’intimo che la vera patria non è questa? Quante volte medito sulla vita eterna?
Noi sacerdoti siamo ridotti alla preghiera silenziosa, liturgica e personale, mentre riceviamo continue richieste di preghiera, di benedizioni, di parole vivificanti. C’è chi si aspetta solo qualche consolazione, ma c’è chi ha sete di verità e di libertà per pacificare cuore e mente. Non siamo, forse, ricondotti al centro del ministero? Papa Francesco lo ricordava nell’omelia di domenica scorsa: «Il dramma che stiamo attraversando in questo tempo ci spinge a prendere sul serio quel che è serio, a non perderci in cose di poco conto; a riscoprire che la vita non serve se non si serve. Perché la vita si misura sull’amore». Il nostro supremo compito è aiutare l’umanità a tornare a Dio, e questo faremo iniziando da noi l’opera di pentimento e di riparazione delle ferite del peccato che sparge morte.
Ho più volte dichiarato nelle tante interviste rilasciate che per rinascere serve al nostro Paese una riscossa morale. In verità, nemmeno questa è possibile, per noi credenti, senza un concomitante spostamento dell’asse del nostro pensare e agire verso l’indissolubile connessione di vita terrena e vita eterna, di storia e aldilà, di luce di verità sulla creazione di Dio. E noi siamo gli uomini della trascendenza che risiede nel cuore della quotidianità, una trascendenza della quale tutti hanno nostalgia, che molti intuiscono, ma in pochi intravedono. Siamo chiamati a mostrarla e persino a incarnarla, come sappiamo, per il grande mistero del sacramento dell’ordine. Siamo chiamati ad annunciare che l’equilibrio del presente è irrimediabilmente in pendenza verso l’aldilà, e questo aldilà non giace in un futuro lontano, ma è presenza attuale che ci viene incontro, sottratta al nostro sguardo solo da un sottile velo. Esso è il vero ed unico motore del presente.
Se siamo indotti maggiormente a offrire parole di consolazione in epoca di lutti strazianti, vissuti in solitudine, tra sommessi singhiozzi e lamenti inascoltati, non possiamo farlo da coreuti che partecipano a distanza alla vicenda degli attori. Noi sappiamo e conosciamo che Cristo è la risurrezione e la vita e che ogni dolore reca in sé il germe per passare a una vita più piena. Dal primo momento traumatico che l’uomo conosce nel giardino dell’Eden fino al giardino degli Ulivi, per la divina misericordia e il sacrificio di Cristo la morte è passaggio alla vita: «Mors et vita duello conflixère mirando: dux vitae mortus, regnat vivus».
Il dolore è il travaglio di un cambiamento, una conversione della mente nel suo venir fuori dal pensare adamitico per entrare in quello cristico. Noi per primi siamo attraversati da questo travaglio, al quale non dobbiamo mai sottrarci, sapendo che esso è avvolto preventivamente dall’amore misericordioso di Dio e protetto tra le braccia materne di Maria. Stasera riascolteremo la parola del Maestro a Pietro, rivolta anche a noi: «Se non ti laverò, non avrai parte con me». Lasciamoci purificare dal Sangue che teniamo nelle mani sulla mensa eucaristica! Nutriamo il cuore dell’Amore che Dio vuol donare gratuitamente a chi si pente con dolore e intraprende la strada della riparazione! La riparazione è l’atto sublime d’Amore, vissuto da Gesù sulla croce; la Chiesa e in essa particolarmente noi uomini ordinati abbiamo il mandato di completare quest’opera di riparazione.
Desidero ringraziarvi, carissimi sacerdoti, per la fedeltà alla vocazione, per la generosità nel ministero e per la preghiera e l’affetto che portate anche a me. Vi assicuro la mia quotidiana preghiera, soprattutto in questa giornata dedicata all’amore, cioè all’Eucaristia e al sacerdozio ordinato. Ricordiamo i confratelli che sono più soli o ammalati e tutto riportiamo questa sera nel calice di Cristo.
Buon triduo pasquale!
+Antonino Raspanti
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