LO SCORRERE DEL TEMPO. UNA SCELTA CORAGGIOSA NELLA SOCIETA’ TECNOLOGICA
di Francesco Leonardi, teologo
Siamo soliti dare un nome agli eventi che viviamo, alle emozioni che proviamo, ma non sempre ci riesce. Cercare di categorizzare la vita che scorre adagiata sull’alveo dello spazio e del tempo non è certamente cosa semplice. Spesso ci chiediamo il perché di tante cose, più o meno piacevoli, ma le risposte tardano ad arrivare. Di fronte a ciò, si hanno tre possibilità: la prima è la volontà di non arrovellarsi più di tanto; la seconda riporta ad un turbine di pensieri dai quali è difficile uscire; l’ultima, la più auspicabile, prova a tenere insieme fiducia e inquietudine.
Il pensiero plurale ha messo in discussione l’auspicio di trovare delle verità forti, capaci di unire le diverse articolazioni della realtà, per cui spesso ci si scopre impossibilitati a fornire delle risposte consone. Sembra che l’unica istanza intellegibile sia la terminazione immediata delle esperienze che facciamo e che la tecnica sia l’unico modo per modificarle o quanto meno per non soccombere di fronte alla non disponibilità totale di ciò che ci si presenta. Si è soliti pensare che la tecnica con i suoi avanzamenti costituisca la garanzia del fatto che il reale sia maneggevole. In realtà, nell’ottica di un ribaltamento dei fronti, proprio il dato del progresso restituisce la presenza di un non-detto molto più grande di ciò che già si conosce.
Ludwig Wittgenstein, nelle proposizioni iniziali del Tractatus logico-philosophicus, affermava: «I fatti nello spazio logico sono il mondo. […] Se le cose possono ricorrere in stati di cose, ciò deve già essere in esse» (1). Secondo il filosofo austriaco, il mondo appartiene allo spazio logico e la possibilità che le cose accadano è saldamente ancorata a questo dato pensabile. Ciò è estremamente vero, perché se delle cose possiamo avere una percezione, questo è realizzabile a partire dalle condizioni di possibilità del pensiero stesso.
Nonostante tutto, quello che noi chiamiamo possibilità mostra che le cose possono accadere come non accadere affatto e che la visione che abbiamo dello spazio logico è estremamente limitata; anche Wittgenstein, nelle sue opere, sembra trasmetterlo. Ad ogni modo, ciò che vogliamo evidenziare è il fatto che la civiltà tecnologica tenta di trasformare la possibilità in realtà affermativa, il non-detto in parola pronunciata e spesso non ci si accorge che già ai prodromi dell’esercizio della tecnica ci sia una negazione che chiama a sé la domanda sulla profondità delle cose.
Questo discorso riecheggia, se vogliamo, la domanda che permea la metafisica occidentale: «perché l’essere piuttosto che il nulla?». La teologia cristiana storicamente insegna la categoria di creazione, quella cioè di una presenza che si erge sull’assenza di un tutto, ma qui vogliamo compiere un passo ulteriore. Il non, dal quale emerge l’azione dell’uomo nella tecnica e in tutti gli altri ambiti, potrebbe essere inteso come ri-conoscimento di una signoria diversa dalla nostra capacità di percezione e di resa. Non si tratta, dunque, del cercare di dare ragione della negazione, ma di porsi nell’ascolto della sua sottigliezza; il mondo può essere accolto esclusivamente come presenza, contraddizioni comprese.
Tuttavia, è possibile mettersi in ascolto delle sue pieghe che disturbano la continuità, ma che vibrano quasi impercettibilmente. Da qui si comprende solo come la riflessione pratica può cogliere lo spazio dell’abisso e come l’incommensurabilità possa diventare strumento di presenza. La stessa religiosità, se elimina la trascendenza, fatta salva l’incarnazione, è destinata a diventare pura demagogia spirituale. Questo è posto «affinché il rovesciamento del “No” di Dio nel “Sì” di Dio possa compiersi, affinché la grazia possa essere grazia. […] in ciò risiede il buon diritto della legge, della religione».(2)
Lo Spirito di Dio aleggia sulla confusione (3), ma per riconoscerlo bisogna restare saldi nell’ascolto dell’informe. Forse, la consapevolezza della sua presenza rende possibile tale ascolto, ma questa avviene solo in seconda battuta. La nube, nell’antico testamento, è segno della presenza di Dio (4), così come nella tradizione e nell’arte cristiana il Giusto Giudice spesso viene raffigurato come assiso sull’oscurità.
Da qui viene la fiducia nell’inquietudine e quelle che la tradizione spirituale cristiana chiama «pace del cuore» e «umiltà». Lo scorrere del tempo, come concatenazione di positivo e negativo, invita a fare una scelta coraggiosa perché la luce inizi a splendere (5): «Io sono estremamente debole; l’attenzione del mio spirito vacilla come fiamma di un cero al vento; l’energia della mia volontà, diretta da questa luce, viene meno ad ogni istante o si dissipa in sforzi disordinati […]. Istante dopo istante, la mia povera vita se ne va così, senza valore e senza risultato. Vorrei tanto stabilirla nella solidità e nella pace! Com’è possibile? […] Ed è per questo che torno a te. Tu mi hai fatto discendere nelle profondità della mia anima, dove le impressioni e i moti contrari cessano, dove regna la grande gioia calma del tuo eterno Amore. Voglio rifare con te questo viaggio. […] Non sei tu la Luce di ogni spirito in questo mondo, la Luce vera, la Luce che mostra tutte le cose nella verità, la Luce che vuole comunicarsi a me?». (6)
1 L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus, propp. 1.13; 2.0121b.
2 K. BARTH, L’epistola ai Romani, Milano, 2009, p. 165
3 Cfr. Gen 1, 2.
4 Si veda, ad esempio, Es 33, 10.
5 Cfr. Gv 1, 5.
6 A. GUILLERAND, Écrits spirituels, in AA.VV., Un itinerario di contemplazione. Antologia di autori certosini, Soveria Mannelli, 2021, pp. 205-206.