Riflessione di Francesco Pio Leonardi, teologo e docente di religione
Molte cose sono cambiate in centocinquant’anni e molte cambieranno in futuro, sia nel modo di intendere ciò che oggi chiamiamo società, sia nella coscienza che la nostra Chiesa ha di sé. Nonostante tutto cerchiamo di mantenere inalterato un dono, accostato in diversi modi, è vero, ma pur sempre invariato. L’idea del mutamento è concettualmente dicibile solo a partire dall’identità, che non è solamente enunciata come evidenza, ma che soprattutto viene sperimentata come presenza. Non si tratta di asservimento rigido ad una forma di monismo, ma di ribadire il primato della presenza sui tentativi di risucchio nel vano. Presenza di chi? Di che cosa? La risposta potrebbe sembrare ovvia: di Dio.
In realtà l’ovvietà ostentata cela le specificazioni che di essa si possono dare: cosa vuol dire, per la Chiesa, ribadire il primato della sua presenza oggi? Già ad un primo approccio la risposta non sembra essere così scontata come inizialmente si poteva pensare. Il tentativo di rendere dicibile, quindi pensabile, questo primato è ciò che la Teologia si propone. Il teologare, come esprime l’etimo della parola, deve avere come oggetto Dio. Il rendere ragione di questa presenza assume significato solo attingendo dalla presenza stessa, altrimenti si corre il rischio di travisarla con l’idea di un ordine, dogmatico o etico che sia.
Oggi l’idea di un ordine dall’alto non è più proponibile; già Nietzsche diceva: «Oggi che siamo entrati nel movimento opposto, oggi che specialmente noi immoralisti, con tutta la nostra forza, torniamo a togliere dal mondo il concetto di colpa e quello di pena, e cerchiamo di purificare da essi psicologia, storia, natura, istituzioni e sanzioni sociali, non esistono ai nostri occhi avversari più radicali dei teologi, i quali col concetto dell’ordine etico del mondo continuano ad appestare l’innocenza del divenire per mezzo della pena e della colpa. Il cristianesimo è una metafisica del boia…» (1)
Ciò ci permette di capire che i mezzi per pensare l’identità di Dio come presenza oggi sono ben diversi da quelli “classici”, ormai interpretati come spirito di coercizione. Bisogna pensare che, addirittura, se la visione dell’immoralista Nietzscheano intendeva purificare la storia dall’idea della colpa, oggi il problema è stato definitivamente accantonato alla radice. Come ogni radice che non trova acqua, questa si è spostata nel dramma del divenire stesso, perché se la colpa non viene più percepita in quello che era l’ordine morale, oggi si realizza nel vuoto generato da un malcelato desiderio di pienezza. Solo a partire dal possibile riempimento di questo vuoto è pensabile l’annuncio di una salvezza concreta.
L’immutabilità di Dio e dei suoi doni non sta, dunque, nell’idea di sicurezza o in un ordine costituito, i cui limiti sono di per sé angusti (basti pensare agli scandali generati dalla piccolezza di questi limiti), ma in una pienezza che trascende i recinti della realtà, in quanto coincide col reale stesso. Quando si sperimenta la trascendenza si dischiude anche la possibilità di intendere il divenire nel vero senso dell’innocenza, della delicatezza del lasciar essere le cose così come sono.
“Lasciar essere”, come parola chiave, indica l’abbandono della manipolazione per lasciar spazio ad una nuova immagine del mondo, che appaga (2) e protegge dai flutti e dalle tempeste (3): «Come andrà a finire il trionfo della speculazione, l’idealismo perfetto e arrotondato, se la religione non lo equilibra e non gli lascia presentire un realismo più alto di quello che esso temerariamente e incondizionatamente si subordina? Annienterà l’Universo, proprio mentre sembra formarlo» (4)
L’idea dell’immutabilità sempre identica a sé stessa annienta, mentre l’Immutabile rende la presenza. Su questa differenza s’innesta la libertà dell’uomo, la quale cerca la pienezza ed è posto dinanzi alla scelta tra la sicurezza ed il salto nel buio; in una parola, dinanzi alla possibilità della fede. La Chiesa oggi deve riscoprire la bellezza della fede come proposta dell’Immutabile e non dell’immutabilità, come riscoperta del “pieno” rispetto al “vuoto”. Cristo che trionfa sulla morte garantisce il riempimento dello iato, per usare la terminologia Balthasariana.
La domanda che si pone a questo punto è quella sui modi di sperimentazione di questo passaggio dal vuoto alla presenza: «Le disse Gesù: “Donna, perché piangi? Chi cerchi?” Ella, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: “Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto e io andrò a prenderlo”. Gesù le disse: “Maria!”. Ella si voltò e gli disse in ebraico: “Rabbunì!” – che significa: Maestro!» (5)
Il fatto è che «c’è qualcuno accanto a me, che io scambio per un giardiniere, che è il mio maestro […]. Coloro che ci aiutano nella vita sono sempre lì. A volte moriamo senza rendercene conto, altre impieghiamo decenni per rivolgerci a lui – o a lei- e formulargli la nostra domanda. Il fatto è che il maestro non sembra il maestro» (6)
Nella vita semplice della nostra Chiesa, a volte travagliata, sperimentiamo la presenza di tante persone che incarnano il Maestro; forse sono nascoste; forse all’inizio sembrano tutt’altro che il Risorto che ci attende sulla soglia dei nostri vuoti. Sappiamo, tuttavia, che lui è lì che ci aspetta, non da un giorno, non da centocinquant’anni, ma da sempre, immutabile, in attesa che lo riconosciamo.
1 F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli ovvero come si filosofa col martello, Milano, 1989, p. 64.
2 Cfr. Tommaso d’Aquino, Somma Teologica, I-II, 2, 8.
3 Cfr. Mc 4, 35-41.
4 F. Schleiermacher, Sulla Religione. Discorsi a quegli intellettuali che la disprezzano, Brescia, 20173, p. 75.
5 Gv 20, 15-16.
6 P. D’Ors, Biografia della Luce, Milano, 2021, p. 503.