SPAZIO DI VITA
Articolo di Francesco Leonardi, teologo
“Preparare la via del Signore”, di cui Giovanni il Battista si fa strumento, oggi come ieri equivale a storicizzare gli effetti dell’intervento divino. Vuol dire leggere il proprio tempo ed esercitare il giudizio della coscienza credente su di esso. L’idea della “via” suggerisce la creazione di un luogo, di uno spazio entro il quale collocare tale esercizio. L’attività prevede il ricorso a delle energie mentali, fisiche e spirituali proprie, ma è chiaro che il “luogo” appartiene a Dio: la via di cui si parla è del Signore, esclusivamente. La spazialità qui non è mera solidificazione o blocco impersonale, ma abitazione calda nella quale entrare e trovare riparo. Dovessimo riassumere tutto questo in un’espressione, diremmo che si tratta di luogo teologico.
Purtroppo oggi si fa molta confusione riguardo agli “spazi” dell’intervento divino nella storia, infatti la categoria di “luogo” non è più un trend. Si discute molto sull’essenza del tempo perché in esso si realizza la percezione che abbiamo delle cose e la possibilità di esser-ci anche negli angoli più remoti, tuttavia si rischia di rinchiudere anche questa realtà profonda nel carcere dell’inautenticità e dell’astrazione. Senza luogo non c’è concretezza, quindi nemmeno temporalità finita. In poche parole, si ha bisogno del movimento che l’itinerario temporale impone, ma si necessita della terra come condizione imprescindibile alla progettualità esistenziale. Come avvenne nella leggenda di Talete, che cadde nella buca a causa del suo sguardo rivolto costantemente al cielo, così oggi si rischia di alienare il pensiero dalla materia e dalla percezione finita che abbiamo di essa.
Dobbiamo intuire una volta per sempre che il Cristianesimo è fedele alla terra, non per idolatrare la stessa, si capisce, ma perché il Figlio dell’Uomo è tale; è Figlio di “terra” (Humus) nel cuore della Trinità. La Rivelazione implica che lo spazio diventi luogo, ma non semplicemente nell’ottica di “spazio significativo”. Il luogo teologico assume la connotazione di spazio tipico, o meglio di spazio proto-tipico. Come tutte le cose concrete è ben delimitato, per questo c’è anche chi non vi appartiene. Non si tratta di esclusione, ma di libera scelta: la non appartenenza è determinata, in ultima analisi, dalla volontà, anche se non è semplice riuscire a comprendere quale sia il discrimine tra ciò che è dentro e ciò che non lo è.
Per il credente è fondamentale riuscire ad abitare questo luogo rivelativo, con la prospettiva che mediante la consonanza ad esso si genera attrazione verso il suo centro, per sé e per chi sta “fuori”. Questo vuol dire preparare la via del Signore e abbassare monti e colline (1): adoperarsi per far sì che lo Spazio che viviamo, entro il quale Dio si comunica, diventi agevole e foriero di libertà. L’individualismo che caratterizza non solo l’umanità com’è, ma anche le Comunità cristiane, è frutto della corsa al risucchio del tempo che, per sua connotazione, è fondamentalmente compaginale alla soggettività. Il luogo nel quale si vive, invece, è problematico; bisogna condividerlo, si è costretti a guardarsi negli occhi, salvo sbattere gli uni con gli altri; se poi è piccolo ancor peggio. A causa della definizione dello spazio vitale a volte ci si ferisce a vicenda, tuttavia si lotta e, seppur conflittualmente, ci si relaziona. Con ciò sembra che il nostro discorso rifiuti il moto della temporalità, invece è volto alla ricerca di un equilibrio.
Penso, infatti, che sia la Teologia sia la pastorale (se di pastorale si può parlare in modo separato) abbiano troppo spesso rinunciato a volgere lo sguardo ai luoghi della rivelazione, fissandosi troppo solamente sulla mondanità, oppure esclusivamente sul simulacro di una rivelazione disincarnata. La sfida grande sta nel mantenere la polarità. Ciò non rappresenta un’attribuzione di colpe, quanto della presa di coscienza che abbiamo sopportato per troppo tempo la coesistenza di delitto e solennità (2).
Mentre i “luoghi” che sono stati importanti per la trasmissione della fede hanno preso direzioni diverse, abbiamo cercato di curare il nostro orto, pensando di uscirne incolumi; invece i dati dimostrano che senza respiro si soffoca. Oggi la chiamata alle armi non serve a nulla, ma il coraggio sì. Dalla politica all’assistenza ai poveri dobbiamo ribadire con i fatti, più che con categorie ideologiche, che il cristianesimo ha prodotto una certa cultura che ha profuso energie per lo sviluppo dell’occidente, ma che, infine, è patrimonio saldo dell’umanità. Se il cristianesimo occidentale non prenderà coscienza della rilevanza di Cristo come principio della sua identità, non ci potrà essere futuro. Attenzione; quando diciamo dell’identità cristiana ci riferiamo alla persona di Gesù Cristo, non ad una particolare idea, fosse anche quella confessionale. Essere di Cristo vuol dire immergersi nella profondità del suo mistero, che solo dopo (non in senso cronologico) indica la via di una particolare opzione esistenziale.
Come fa, dunque, una persona particolare ad assurgere al rango di causa universalmente valida? La domanda rimane aperta, ma sappiamo che la strada che cerchiamo è tracciata, dobbiamo solo prendercene cura e percorrerla.
1 Cfr. Is 40, 4
2 Cfr. Is 1, 13