UN CUORE DAL SENSO LARGO
Articolo di Francesco Leonardi, teologo
«Niente è più infido del cuore e difficilmente guarisce! Chi lo può conoscere? Io, il Signore, scruto la mente e saggio i cuori, per dare a ciascuno secondo la sua condotta, secondo il frutto delle sue azioni» (1). Da queste parole del profeta si evince che il cuore dell’uomo è una realtà tortuosa, suscettibile di ferite che difficilmente si rimarginano. Dovessimo trovare un elemento più o meno comune alle diverse culture, il tema del cuore come sede particolare dell’intimità della persona costituirebbe un ottimo argomento. Il cuore, dunque, è l’origine delle scelte pratiche, ma allo stesso tempo un elemento fragile che può essere tastato solo da Dio. Nessuno, eccetto il creatore, lo può conoscere completamente, o forse nessuno sa esercitare la delicatezza necessaria perché entrandovi non si rompa.
Neanche noi stessi, in fin dei conti, conosciamo il nostro intimo tant’è che l’esistenza dovrebbe essere un esercizio continuo di coscienza. Sant’Agostino, nella sua celebre espressione «Io stesso ero divenuto per me un grande enigma» (2) e nella conseguente ricerca entro la quale Dio lo guidava, testimoniava che il cuore dell’uomo è così infido perché la consapevolezza di autonomia che si può avere di esso, alla fine si realizza esaminandone l’eteronomia dell’origine. In poche parole, l’interiorità dell’uomo può essere indagata, ma quest’indagine accentuerà sempre uno spazio d’eccedenza incolmabile dagli sforzi della parte volontaria della coscienza. In questo margine imperscrutabile si colloca la fede che, nella sua principale dimensione di affidamento, viene spogliata della saldezza delle congetture, anche di quelle più vicine al vero.
Questa logica del perdere per ottenere è propriamente evangelica, anzi potremmo dire che è il nucleo della kenosis divina. Il nostro cuore non basta a se stesso, ha sempre bisogno di essere colmato. Anche l’egoismo più radicato è, in fondo, espressione di un bisogno e prova del fatto che bisogna “uscire” nell’ignoto per giungere a dei risultati, anche se inadeguati. La novità della tradizione cristiana consiste nell’apertura di una strada nel deserto (3), nelle terre attraverso le quali comunemente non ci si può spingere. Ciò non vuol dire che il senso di smarrimento che si prova nel trovarvisi in esse svanisce, anzi si accentua; tuttavia è possibile trovare stabilità nell’accordo tra il ritmo delle tempeste e la cadenza dei passi che si muovono per attraversarle.
Non si tratta di una semplice gestione psicologica, che pure gioca un ruolo importante, quanto della certezza di essere amati: «Diceva Bernanos che è molto difficile non odiare se stessi. Noi diciamo che è addirittura impossibile, senza amore, senza amare quel cuore concreto che è il cuore di Cristo. […] L’amore è un atto incondizionato, e al contempo – per quanto paradossale sembri – la condizione tassativa per amare incondizionatamente. Perciò l’ultimo garante che ne avalla la possibilità sta là dove l’amore incondizionato e infinito si è assunto – in modo assoluto, inarrivabile e traboccante d’affetto – una realtà finita, identificandosi assolutamente con essa. Questo è avvenuto quando Dio ha assunto la realtà finita dell’umanità di Cristo, accettandola e facendola sua, accogliendo nell’atto amoroso dell’Unione Ipostatica il nucleo finito di una natura umana in modo realistico, assoluto e incondizionato, per cui essa rimane sua per tutta l’eternità» (4).
Nel Cuore di Cristo, dunque, si trova la libertà dello Spirito e la necessità del Comandamento, suscitate a loro volta dalla non-arrivabilità del divino e dalla concreta definizione di un itinerario da seguire. Solo a partire dal Cuore è possibile comprendere che la nostra percezione del reale (peccati compresi) non è il tutto, ma che c’è spazio per la Misericordia. Il cuore umano, come dicevamo all’inizio, difficilmente guarisce a causa della sua complessità e delicatezza, ma le ferite che porta dentro possono essere trasformate dall’affetto/effetto di una nuova significazione.
Spesso ci si dimentica che l’affezione non è il contrario della significazione, come nella dicotomia cuore-mente che la nostra cultura ha avallato; anzi solo se tra i credenti e nella società c’è affetto è possibile riscoprire la vita propria dell’umanità e un significato nuovo. Dall’affezione nasce l’attribuzione di senso alle cose che facciamo; se, infatti, così non fosse saremmo dei calcolatori, disposti a commerciare anche le relazioni. L’affetto, come già citato, è la condizione necessaria per realizzare legami significativi, eppure quello vero non nasce da una necessità. Come uscire dall’impasse? Ciò che il nostro spirito può fare è richiedere con insistenza il dono di un cuore di carne (5), perché i calcoli (da calculus = sasso) dell’intelletto rigido s’indeboliscano, lasciando spazio alla vita pregna di comprensione larga, fiduciosi che chi cerca alla fine trova (6).
Ger 17, 9-10
2 Agostino D’Ippona, Confessioni, IV, 4. 9.
3 Cfr. Is 43, 16-19
4 K. Rahner, Teologia del Cuore di Cristo, Roma, 2003, pp. 126-127.
5 Cfr. Ez 36, 26
6 Cfr. Mt 7, 7