Che cos’è la verità?
articolo di Francesco Leonardi, teologo
Nella vita di tutti i giorni siamo abituati all’ascolto di milioni di notizie che, in un modo o nell’altro, turbano il nostro animo. Dimentichi di perseguire la significatività dell’esistenza ci troviamo come banderuole sbattute dal vento di una mentalità gretta, fondata su opinioni da “cortile”. Lo testimoniano gli ascolti dei programmi trash o i commenti social dei “tuttologi” che passano dalla virologia alla filologia su Dante in men che non si dica. Non vogliamo fare qui una disamina polemica sulla situazione attuale dell’informazione, quanto affermare positivamente che, oltre il velo di un’ignoranza dilagante, c’è la verità che attende di essere manifestata. La responsabilità di un’eventuale “caduta della maschera” è nostra e quanto mai pressante. I greci solevano riferirsi alla verità col termine ἀλήθεια che, letteralmente, significa “disvelamento, atto del dischiudere”, suggerendo che per cogliere la vastità del reale bisogna rimuovere ciò che ne ostacola la manifestazione. Inutile ricordare le diverse speculazioni che dall’antichità ai nostri giorni sono partite da questo concetto fondamentale; noi cercheremo di offrire solamente qualche semplice impressione procedendo dalla fede. La verità: «Che cos’è la verità?»(1), chiese Pilato a Gesù, non ricevendo risposta durante l’interrogatorio. Nonostante l’attualità sia pervasa dal no sense risuona la domanda e noi, incerti nel poter dare una risposta coerente, procediamo a tentoni balbettando il nostro assenso. Già i Medievali, attribuendo alla fonte dell’essere, a Dio, i trascendentali di Uno, Vero e Buono (e Bello) avevano intuito che della verità non si può dare una connotazione rigida, ma che le tre forme suddette riconducono all’unità la molteplicità, attraverso il perseguimento del bene incarnato e non astratto. Chiaramente il tema richiederebbe fior di trattazioni, ma non possiamo dilungarci molto. Ciò che possiamo ritrovare utile ai fini della nostra povera riflessione è il termine “assenso”, che abbiamo utilizzato prima non casualmente e dal quale possiamo abbozzare una prospettiva. Conoscere, quindi accedere al vero, implica il nostro assentire, accogliere “con le viscere” la verità che è maggiore della semplice connotazione inferenziale.
Scriveva Newman nel suo celebre testo: «Lascia che la proposizione a cui è dato l’assenso sia assolutamente vera, come l’atto riflesso pronuncia, sia soggettivamente che oggettivamente: da qui l’assenso può essere chiamato percezione, la convinzione certezza, la proposizione o verità una certa cosa conosciuta, o una questione di conoscenza, e “l’assenso a” il conoscere»(2). Se la verità va appresa nella sua concretezza e il conoscere vero e proprio si basa non sulla logica rigida, ma su qualcosa di più, allora avremo anche la possibilità di assentire al dato culmine della Rivelazione, cioè al dono della vita di Cristo sulla croce e alla sua Risurrezione, di cui nel Triduo Santo facciamo memoria. Da esso, poi, declineremo e orienteremo le diverse porzioni di vita vera e vissuta. Naturalmente l’idea di un λόγος crocifisso supera anche le possibilità di un semplice assenso, poiché se assentendo al vero quotidianamente possiamo tracciare una direzione, l’accoglienza di questa particolare e sconcertante verità appartiene solo alla gratuità dello stesso Amore tradito (consegnato). Solo la percezione della credibilità proveniente, in ultima analisi, da Cristo stesso può dare inizio alla possibilità della fede. Di fronte alla passione di Gesù possiamo solo tacere, così come di fronte ai nostri mali che, in certo qual modo, oscillano tra la croce di Cristo e il nostro presente. Perciò alla domanda di Pilato, di cui sopra, non c’è risposta perché non c’è accoglienza, non c’è la pace che garantisce l’uscita dal carcere delle certezze: i ruoli di giudice e prigioniero sono invertiti. La vulnerabilità di Cristo ci giudica, vaglia la nostra capacità di assenso e ci attrae in silenzio. Da questa parola che si erge sopra il tacere ripartiremo, ma non da noi. Riportiamo la preghiera di Karl Rahner, quanto mai opportuna in tale prospettiva: «Allora sarai tu l’ultima parola, l’unica che rimane e non si dimentica. Allora, quando tutto tacerà nella morte, e io avrò consumato il mio sapere e il mio soffrire, allora avrà inizio il grande silenzio in cui tu solo risuoni, parola dell’eternità. Allora sarà muta ogni parola umana, essere e sapere, conoscenza ed esperienza saranno una cosa sola: “Io conoscerò come sono conosciuto”, comprenderò quello che tu da sempre m’hai detto: te, mio Dio. Non ci sarà parola umana, né immagine, né concetto fra me e te; tu sarai la mia parola del giubilo dell’amore, della vita che riempie ogni spazio della mia anima»(3).
1 Gv 18, 38
2 J. H. Newman, An Essay in aid of a Grammar of Assent, Dublino, 1870, da https://www.newmanreader.org/works/grammar/index.html#background (traduzione personale dall’originale inglese).
3 K. Rahner, Tu sei il silenzio, Brescia, 1956, pp. 34-35.