UNA CURA NEL BISOGNO

19 marzo 2021 - Riflessione su San Giuseppe

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San Giuseppe e la custodia premurosa

articolo di Francesco Leonardi, teologo

Il prendersi cura oggi è una grande sfida. Oltre ad essere tale, tuttavia, è un’esigenza da ricercare per leggere in profondità il mistero della finitudine. Purtroppo le abitudini e gli automatismi pongono spesso le persone nel disincanto del reale significativo.
La domanda essenziale è: fino a che punto l’esperienza del limite può essere letta oltre se stessa? In altri termini, che senso ha la finitudine che abitiamo? Se non vogliamo cadere nell’astrazione, dobbiamo necessariamente guardare ad essa con sguardo sereno, sciolto da pregiudizi che messi in discussione genererebbero tensione. L’indagine che proponiamo parte dalla consapevolezza che dopo la “morte della metafisica” (sempre che possa dirsi tale e non un semplice slogan) l’universale e l’assoluto non rappresentano più il termine ultimo della ricerca; la domanda sul senso del limite permane anche dopo l’ammissione di un λόγος. Nonostante le risposte che possiamo offrire, tutto rimane incerto e a dir poco complesso. Abbiamo bisogno di rimescolare le carte in tavola e, in effetti, la stessa Rivelazione ci dice che il λόγος che cerchiamo è stato crocifisso, la verità è sconfitta, l’amore è deluso e trafitto. Gli uomini preferiscono le tenebre alla luce(1) e non c’è anelito all’infinito che tenga. L’uomo diventato adulto(2) si è sciolto dalle catene dell’universale certo e si volge verso il possibile col suo limite(3), perché è incline ad esso, ne è “impastato”; non lo si può nascondere.

Non ci resta che il domandare: si tratta della via maestra perché il limite venga raggiunto e accolto, ma non diventi costringente. Imparare a domandare vuol dire educarsi ed educare alla complessità, partendo dall’esperienza delle contraddizioni della vita e dalla possibilità del ritrovamento del significativo. Domandare non vuol dire che tutto è passabile o fluido, ma che ogni cosa viene assunta con cura come elemento concreto nella duplice appartenenza al finito e alla progettualità (possibilità di modifica).

Chiedere, pensare, discutere, avere cura sono oggi delle componenti che non hanno più diritto di cittadinanza e, in questo periodo particolare nel quale la stanchezza fa da padrone, ci si scaglia indistintamente sulla prima cosa che capita o, dall’altro lato, si ribadiscono princìpi depauperati dalla loro carica vitale.

Avvertiamo un grande bisogno di riscoprire il cuore pulsante della nostra identità, di farne esperienza. Martin Heidegger, nel suo celebre testo Sein und Zeit, riporta un mito che può aprire una prospettiva: «Un giorno la “Cura”, traversando un fiume, vide del terriccio argilloso: sovrappensiero lo prese in mano e cominciò a modellarlo. Mentre rifletteva su ciò che aveva fatto, si fa avanti Giove. La “Cura” lo prega di infondere al pezzo di fango da lei modellato lo spirito. Cosa che Giove di buon grado le concede. Ma quando poi essa volle dare alla sua opera il proprio nome, Giove glielo proibì pretendendo che le si dovesse dare il proprio. Mentre la “Cura” e Giove litigavano sul nome, saltò anche la Terra esprimendo il desiderio che le venisse dato il proprio nome, visto che essa gli aveva offerto una porzione del proprio corpo. I litiganti presero a giudice Saturno. E Saturno diede loro questa sentenza apparentemente equa “Tu Giove, che le hai dato lo spirito, avrai alla morte lo spirito, e tu Terra, che le hai donato il corpo, il corpo avrai. Ma poiché la Cura ha per prima formato questa creatura, essa per tutta la durata della sua vita sarà in preda alla Cura. E siccome discutete sul suo nome, chiamatela ‘homo’, perché è fatta di humus (terra)”»(4).

Tralasciando le implicazioni filosofiche heideggeriane, ciò che possiamo rendere utile per la nostra riflessione è il fatto che la Cura gestisce, per così dire, l’uomo nell’arco della sua finitudine e del suo limite temporale (Saturno) che genera sentenze “solo apparentemente” giuste. Il prendersi cura, la prossimità, è il carattere distintivo della fede cristiana. San Giuseppe l’aveva capito. Possiamo classificare le sue azioni come quelle del vero credente, che prende in custodia la debolezza nella persona di Dio stesso, fattosi egli stesso limite. Giuseppe affronta la complessità delle situazioni che si frappongono fra lui e la realizzazione della volontà di Dio con la semplicità di chi ha fatto esperienza del Cuore pulsante che si nasconde oltre il velo sulle nostre esperienze. Perciò si assume la responsabilità di essere padre. Nelle sue mani sta la possibilità della riuscita e/o del fallimento del bimbo affidato alla sua cura, quindi per estensione delle possibilità della riuscita dell’Amore di Dio. In quest’incontro di libertà irriducibili e grande fragilità sta tutto il nostro domandare e la nostra premura, che ci mette in cammino, che ci mette in confusione, che talvolta ci fa fuggire in Egitto per poi essere richiamati in patria(5).


1 Cfr. Gv 3, 19
2 Vd. D. BONHOEFFER, Resistenza e Resa. Lettere e scritti dal carcere, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2015.
3 Vd. F. W. SCHELLING, Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana, Milano, Bompiani, 2007.
4 M. HEIDEGGER, Essere e Tempo, Milano, Mondadori, 2012, pp. 282-283.
5 Cfr. Mt 2, 15

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17 Marzo 2021
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